Durante lo svolgimento della prima guerra mondiale si aggravarono i problemi economico – sociali dell’ Italia, ancorché vincitrice, che Giolitti aveva temuto e preconizzato .
In tale contesto, appare quanto mai significativa l’iniziativa presa dal Sovrano nel 1917 per la nascita dell’ Opera nazionale Combattenti , che distribuì le proprietà di fondi agricoli a decine di migliaia di giovani, i quali al termine del conflitto si sarebbero altrimenti trovati senza lavoro, costituendo potenzialmente una massa da manovra per gli epigoni nostrani della Rivoluzione russa.
L’Opera in questione attese a bonifiche capillari nell’intero territorio nazionale, mentre il Sovrano, all’indomani della cessazione della guerra, cooperò al più generale risanamento della dissestata economia post-bellica, con un suo personale atto di disposizione, che doveva rivestire un valore di sobria esemplarità.
Scrisse infatti al presidente del Consiglio Nitti una missiva che fu letta alla Camera l’11 settembre 1919: “Caro Presidente– esordì- dopo la nostra grande guerra che ha riunito tutti gli italiani in uno sforzo tenace, dopo le vittorie che hanno dato all’Italia più grande sicurezza e dignità nel mondo, dobbiamo ora riprendere con rinvigorita lena il nostro pacifico lavoro. Un più modesto tenore di vita deve coincidere con un più grande fervore di opere. E’mio desiderio che parte dei beni fin qui in godimento alla Corona, ritorni al Demanio dello Stato, e quanti costituiscono fonte di rendita, siano ceduti all’Opera Nazionale Combattenti”. L’antico voto di sistemare nel modo più conveniente il patrimonio artistico nazionale, che è tanta gloria italiana, dovrebbe compiersi in questa occasione. I tesori dell’arte nostra potrebbero essere degnamente raccolti in Palazzi dei quali fin qui goduto la Corona, e che potrebbero essere devoluti all’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti. Vorrei, infine, che la Lista civile fosse nello stesso tempo ridotta di tre milioni, ferma restando la restituzione allo Stato, che sarà da me operata come nel passato, del milione rappresentante il dovario[1]della mia genitrice. Le sarò molto tenuto , se Ella vorrà formulare questo mio desiderio in un disegno di legge”.
Con R.D. 3 ottobre 1919 fu pertanto disposta la riduzione di 3 milioni della Lista civile, al fine di contribuire al contenimento della spesa pubblica, nonché di rinsaldare le finanze dello Stato e di rilanciare la produzione.
Gran parte dei beni dati in uso alla Corona, inclusi Ville e Palazzi Reali di notevole pregio storico ed artistico , furono retrocessi al Demanio per finalità di pubblico interesse; mentre tutte le rendite e le terre coltivate già della Corona, dovevano essere cedute all’ Opera nazionale Combattenti: il tutto avvenne con ben 49 decreti attuativi.
Gli interventi riduttivi della Dotazione furono il segno di una scelta assolutamente autonoma da qualunque sollecitazione esterna; sicché il Nitti, nell’adempiere al compito di esecutore dei provvedimenti in parola, volle sottolineare la “nobile determinazione che stava alla base di essi”.
Il 27 novembre 1921 il ministro della Real Casa Mattioli sottopose alla firma del Sovrano il decreto approvativo del Regolamento di Contabilità per l’amministrazione della medesima (n.169), resa più snella a causa della menzionata retrocessione di gran parte della Dotazione, con conseguente semplificazione contabile, secondo regole destinate a costituire un esempio di sana e corretta gestione[2] di pubbliche risorse.
Tornando all’immediato Dopoguerra, il 19 giugno 1919 cadeva il governo Orlando, il quale poco tempo prima, a fronte della crisi economica che attanagliava l’Italia e che avrebbe potuto essere alleviata con l’accettazione di aiuti economici quali contropartita alla rinunzia a Fiume, esclamò al cospetto di un’immensa folla plaudente nella Capitale: “I rifornimenti ci mancano, ma l’Italia che conosce la fame, non conosce il disonore!”.
La guerra aveva creato due schieramenti contrapposti : gli interventisti (liberali conservatori, socialisti riformisti, nazionalisti..) ed i neutralisti (liberali giolittiani, cattolici, socialisti), creando un ulteriore fattore di instabilità politico sociale, che avrebbe agevolato, oggettivamente, la svolta totalitaria.
Nell’agosto entrò in vigore la nuova legge elettorale, introduttiva del sistema proporzionale, grazie al quale nel successivo mese di novembre si affermarono significativamente i socialisti (155 deputati) ed i popolari ( 100 deputati), mentre le forze di ispirazione liberale ( 170 deputati in tutto) apparvero frammentate e notevolmente indebolite nel nuovo assetto parlamentare.
La prima Guerra mondiale aveva segnato lo spartiacque più profondo tra il vecchio Stato liberale, fondato sugli equilibri elitari antecedenti all’introduzione del suffragio universale maschile del 1911, e la complessità di un nuovo sistema democratico accresciutasi con la riforma elettorale in senso proporzionale, varata nel 1919 dal Nitti, che rendeva nuovi protagonisti i grandi partiti di massa, come il Popolare ed il Socialista: non c’era più il sentire omogeneo di un ristretto corpo elettorale espressivo di interessi sostanzialmente unitari. La maggioranza complessiva dei seggi fu conquistata dal Partito socialista e da quello Popolare, impossibilitati peraltro ad allearsi data l’incompatibilità dei rispettivi programmi.
In occasione della riforma in questione Nitti , recependo un’istanza espressa in tal senso dal Partito Popolare, aveva proposto di consentire il voto anche alle donne, ma il Re si era opposto, temendo che lo Stato liberale, oltre a dover fronteggiare la massa d’urto dei socialisti, dovesse confrontarsi anche con un partito cattolico che sarebbe divenuto troppo potente con l’eventuale voto femminile.
Dopo l’introduzione del proporzionale, iniziò l’instabilità politica che vide alternarsi in meno di tre anni ben 6 Governi ( tre di Nitti, uno di Bonomi ed uno di Giolitti).
Nel 1919 erano nati il Partito popolare di don Sturzo (18 gennaio )ed i Fasci di Combattimento di Mussolini (23 marzo), i quali ultimi apparvero come un rifugio per gli emarginati reduci del Dopoguerra, che non avevano trovato possibilità di un proficuo reimpiego nella vita civile, o che addirittura erano stati oggetto di vituperio da parte dell’estremismo socialista nel nord- Italia , dal quale Turati con i suoi Riformisti aveva preso nettamente le distanze.
La caccia ai Carabinieri ed agli Ufficiali da parte dei fautori della dittatura del proletariato, in seguito alla reiterazione di siffatti episodi venne denunziata con estrema fermezza in un articolo di fondo del direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini.
Il caos economico-sociale indusse Salvemini ad asserire che la riforma elettorale a suo tempo voluta da Giolitti, era stata equivalente ad un “lauto pasto servito di prima mattina”; quindi invece di essere un momento importante per l’ascesa della democrazia, si sarebbe rivelata esiziale per la tenuta della stessa.
All’ingresso del Sovrano in Parlamento all’inizio della nuova Legislatura, il 1° dicembre 1919, i socialisti batterono delle tavolette sui banchi , gridando “Viva la Repubblica socialista!” e lasciarono la Camera con studiata lentezza.
Nel primo Discorso della Corona pronunziato proprio in quella occasione, il Monarca affermò che al di sopra della vittoria si ergeva la giustizia, presupposto di una pace nella quale tutte la parti in causa, vincitori e vinti , dovevano trovare risposta al medesimo bisogno di lavoro e di serenità.
Entrando nel merito dei problemi sociali, fece appello al “patriottismo delle classi agiate”, per un ‘azione del Parlamento che doveva orientarsi prioritariamente al problema dell’occupazione.
Nel frattempo la Conferenza di Versailles (1919-1920) avrebbe alimentato presso significativi settori dell’opinione pubblica, l’idea della “vittoria mutilata”, per il mancato riconoscimento all’Italia di alcuni territori come Fiume, che venne “abusivamente” occupata dal D’Annunzio.
Le conseguenze economiche del conflitto non tardarono a manifestarsi in quel travagliato dopoguerra, fino ad arrivare alle forme più estreme delle c.d.“Settimane rosse”, con scioperi e occupazioni delle terre, cui seguì, nel 1920, quella delle fabbriche.
Nel giugno 1920 usciva di scena Nitti , nel cui ultimo Gabinetto il Re avrebbe volentieri inserito i socialisti, secondo una testimonianza postuma resa proprio dal Nitti nel 1928 nel suo libro la Disgregazione dell’Europa : “Il Re – scrisse l’A .- mi espresse più di una volta il desiderio di vedere i socialisti con me al Governo, perché sperava ritrasformarli , così , in elementi di ordine e di incanalare la loro azione in un movimento di riforme democratiche”.
Turati e Treves , purtroppo, non riuscirono a “smarcarsi” dai comunisti, come già era accaduto all’inizio del secolo, quando Giolitti aveva vanamente cercato di coinvolgerli nella compagine governativa.
I cattolici di don Sturzo, a loro volta, avevano cagionato la caduta di due governi Nitti , per cui i due nuovi partiti di massa ebbero le loro responsabilità storiche e politiche nell’aver cooperato a determinare quella situazione di fragilità politica, che costituì l’humus ideale per la successiva svolta totalitaria.
A Nitti successe il 15 giugno 1920 Giolitti , che scelse la linea a lui congeniale della prudenza, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l’esercito. In merito all’avanzata del Fascismo dopo le aggressioni dell’Estrema Sinistra che avevano sconvolto il Paese nel 1919, lo Statista di Dronero rilevata la “priorità temporale” delle seconde, rilevò che i comunisti avevano cominciato e che conseguentemente “trovavano chi replicava”.
Tuttavia la tensione sociale, malgrado taluni effetti positivi dell’intermediazione giolittiana, come la riapertura pacifica delle fabbriche, restava altissima, per cui sotto le ceneri di non sopiti fermenti sociali , contestuali all’indisponibilità del Partito Socialista ad assumere dirette responsabilità di governo, covarono gli aneliti di una rivolta in grande stile.
Il 15 maggio del 1921 Giolitti si rivolse nuovamente agli elettori, ma la scelta si rivelò avventata, in quanto aumentò la frammentazione delle forze politiche in campo, tra le quali esordì il PCI, nato da una costola del socialismo massimalista. Nello stesso anno (il 7 novembre) i Fasci di combattimento venivano trasformati nel Partito Nazionale Fascista . Nell’arco di soli tre mesi di quel travagliato 1921, gli scontri tra le opposte fazioni avevano cagionato 350 morti ed un migliaio di feriti.
Nel discorso dell’11 giugno 1921, il Sovrano, presagendo l’avvicinarsi della tempesta incombente sul Paese, esortò il Parlamento a “rafforzare gli istituti cooperativi, per suscitare nuove forme di lavoro associato e consentire alle classi operaie di abilitarsi gradualmente al difficile governo dell’attività economica”; mentre in merito al tema dell’istruzione, a lui particolarmente caro, sottolineò che “l’educazione intellettuale e morale di un popolo è la virtù che preserva le democrazie dal cadere negli errori della demagogia”.
Aveva dunque preconizzato la china che stava prendendo il Paese, ma ciò non sarebbe bastato ad arginarne la frana, in una crisi politica senza precedenti dai tempi dello Statuto.
Il 4 luglio del 1921 cadde l’ultimo governo Giolitti, che aveva presentato un disegno di legge mirante a riformare l’art.5 dello Statuto , spostando dal Sovrano al Parlamento il potere di approvare i trattati e gli accordi internazionali, nonché di dichiarare guerra. Se quella riforma fosse stata approvata- ma la storia non si fa con i “se”- il Re sarebbe stato “depotenziato” da ogni decisionalità, ma anche da qualsivoglia correlata imputabilità nei riguardi della successiva partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale.
Viceversa, il permanere di tali poteri (peraltro sempre più de jure e sempre meno de facto, a far data dalla svolta fascista del 1925), ne confermò comunque l’imputabilità giuridica e morale al cospetto della Storia. Dando retta a Giolitti, avrebbe invece salvato se stesso e la Monarchia dagli esiti di un’alleanza nefasta col il Nazi-fascismo e, quindi, di una guerra perduta.
Fu varato un nuovo Esecutivo a guida Bonomi, che restò in carica sino al 26 febbraio dell’anno successivo, per passare poi il testimone ad un Ministero presieduto dal giolittiano Facta, che durò sino al 1° agosto 1922, in una situazione di grave, perdurante instabilità politica e sociale.
Quello stesso 1°agosto le Sinistre avevano proclamato uno sciopero generale contro il Fascismo , che non ebbe l’adesione auspicata, ma allarmò comunque il ceto medio innanzi al fantasma delle astensioni dal lavoro di due anni prima.
La crisi economica si era tramutata in un diffuso malcontento politico , ed il Fascismo, alternando il bastone delle violenze squadristiche con la carota del prospettato ripristino dell’ordine sociale, si proponeva come garante di una ritrovata tranquillità per la maggioranza delle persone comuni, desiderose solo di poter vivere in pace, ponendosi fine ad una guerra civile strisciante.
Nell’ottica legalitaria, Mussolini il 4 aprile 1922 al Teatro lirico di Milano aveva annunziato di voler inserire il suo movimento nella dialettica parlamentare, rendendosi disponibile alla partecipazione di un governo con i liberali.
Il 29 luglio il deputato socialista Ettore Ciccotti in una lettera al Giornale d’Italia propose che si conferissero al Sovrano poteri decisionali analoghi a quelli del Presidente degli Stati Uniti almeno per un anno, mentre alla Camera tutti i gruppi, compreso quello di sua appartenenza, dovevano registrare uno spostamento dell’opinione pubblica sempre più a destra. Da ciò è dato arguire che anche la Sinistra riformista vide alla fine nel Monarca, l’estrema risorsa per riportare ordine nel Paese, tentando di scongiurare tracimazioni dittatoriali.
Alla medesima data del 29 luglio fu lo stesso on. Turati a salire al Quirinale, per annunziare ufficialmente che il gruppo socialista, adunatosi con urgenza, aveva deciso di non “arrestare davanti ad alcuna azione”, purché del nuovo Esecutivo non facessero parte esponenti della Destra.
Il Re aveva vanamente incaricato, in successione, vari esponenti di spicco del mondo liberale per la formazione di un nuovo governo: De Nicola rifiutò; Orlando cercò di varare un Governo (che oggi definiremmo di “larghe intese”) inclusivo dei socialisti riformisti e dei fascisti, ma Turati non si rese disponibile; Giolitti dovette viceversa prendere atto della contrarietà dei Popolari; Bonomi trovò a lui contrari i socialisti . Alla fine fu incaricato Facta , che ottenne la fiducia il 22 agosto del 1922, e rimase in carica sino al successivo 28 ottobre, guidando l’ultimo Esecutivo dell’Italia liberale.
Il 16 ottobre Mussolini, fallite le trattative tra i fascisti ed il governo Facta , profilandosi l’ipotesi di un nuovo Esecutivo a guida Giolitti , confidò a Cesare Rossi : “ se Giolitti torna al potere, siamo fottuti”[3]. Ed ancora : “Bisogna impedire a Giolitti di andare al Governo. Come ha fatto sparare su D’Annunzio, farebbe sparare sui fascisti. Soltanto la conquista diretta del potere può essere considerata una soluzione degna del nostro movimento, che ha agito al di fuori e al di sopra delle leggi in un Regime decrepito”.[4]
Il futuro Duce temeva anche che il fattore “tempo” potesse giocare contro di sé, in quanto se il Ministero Facta fosse riuscito a sopravvivere fino alla solennità del 4 novembre, evocativa della vittoria della I a Guerra mondiale, appellandosi in tale occasione al sentimento dei Reduci in chiave anti-fascista, il Fascismo avrebbe perso ogni speranza di presa del potere; pertanto decise di rompere gli indugi, facendo riservatamente conoscere a Vittorio Emanuele III la sua disponibilità a sostenerlo, purché in un’ottica di reciprocità.
Altrimenti – minacciò- avrebbe appoggiato l’ascesa al trono del giovane Umberto, con la reggenza del Duca d’Aosta.
Il 17 ottobre i socialisti ed i cattolici, ormai “in articulo mortis”, tentarono di salvare il salvabile, per cui Soleri scrisse a Giolitti che un gruppo di 50 socialisti riformisti guidati da Turati erano pronti ad appoggiare un governo da lui guidato, purché senza i fascisti; per converso il card. Gasparri, entrato in dissidio con don Sturzo, fece sapere di non essere più contrario ad un governo liberale, purché venisse garantito il mantenimento del sistema elettorale proporzionale .
A quella stessa data , a fronte di una pregressa disponibilità manifestata da Mussolini a far parte di un Esecutivo a guida dello statista di Dronero, quest’ultimo venne informato con lettera riservata dello Stato Maggiore Esercito, circa le reali intenzioni dell’interlocutore, che in realtà escludevano la disponibilità apparentemente manifestata, mirando l’agitatore romagnolo ad un vero e proprio “colpo militare” per assumere egli direttamente il potere.
Il 18 ottobre la Regina Madre, Margherita, ricevette i quadrumviri De Bono e De Vecchi, augurando loro ogni successo per il bene della Nazione ed assicurando loro che – al contempo- avrebbe cercato di sensibilizzare il figlio sull’ importanza del movimento fascista. Nelle more, l’instabilità economica venutasi a determinare in conseguenza a quella politica, fece precipitare il valore della lira al cambio con la sterlina.
Il Re, che aveva ben compreso il pericolo di una deriva totalitaria, chiese a Facta di convocare il Parlamento, ma questi temporeggiò favorendo con la sua irrisolutezza il precipitare degli eventi, di cui fu tuttavia corresponsabile anche Giolitti, rimasto in fatalistica attesa ad aspettare l’evolversi della situazione, nella quiete ormai surreale della sua Cavour. Quando si decise a partire, era ormai troppo tardi, poiché i fascisti avevano occupato alcune tra le principali stazioni ferroviarie, rendendo impossibili i collegamenti per la Capitale.
Aveva creduto, purtroppo per le future sorti dell’Italia, di potersi comportare secondo collaudati schemi tattici che avevano funzionato durante le crisi di fine Ottocento, come durante gli scioperi del primo ventennio del nuovo secolo ; ma sottovalutò le potenzialità eversive del nuovo interlocutore romagnolo.
Il 24 ottobre Mussolini – pur affermando di voler conservare l’istituzione monarchica – dette l’annunzio dell’inizio della programmata rivolta, che avrebbe preso l’avvio con la “marcia su Roma”, evocativa di una vecchia idea di D’Annunzio, peraltro pronto a venire a Roma per contrastare le Camice nere.
(Continua)