Il tema dei diritti delle donne nell’Islam è al centro di accesi dibattiti e di giudizi estremamente contrastanti. Tra oriente e occidente non cambiano solo sapori, odori, colori. Cambia soprattutto la prospettiva con la quale si analizzano gli eventi e il modo in cui si fa capo alla parola civiltà, nelle varie, discutibili, accezioni del termine.
La storia dei paesi europei e’ basata sul principio di uguaglianza e dei diritti umani della persona, nel cui nome varie generazioni di donne hanno lottato per essere riconosciute come individui davanti alla legge come nel costume diffuso, nella sfera pubblica come nella sfera privata. Ma questa e’ la nostra storia.Per l’Islam la donna è uguale nella fede e disuguale nei commerci sociali, per volontà divina. Il principio dell’autorità maschile sulle donne è variamente giustificato nel Corano. Poiché lo stesso Corano insiste in più passaggi sull’uguaglianza tra uomini e donne davanti a Dio, i versetti che si riferiscono a specifiche funzioni e situazioni sociali, nei quali la donna appare disuguale per volontà divina, non sono sempre visti e vissuti in una prospettiva che è sistematicamente discriminante nei confronti delle donne.
Se è innegabile che non è facile parlare di diritti delle donne islamiche, dal momento che la maggior parte di esse sono private delle più elementari norme civili quali, per citarne solo alcune, la sottomissione all’uomo, da cui si può essere ripudiate; l’obbligo, in molti paesi, di coprire il proprio corpo e spesso anche il viso; l’imposizione dell’infibulazione e dell’escissione; la quasi assenza di libertà di spostamento e di espressione; la non possibilità di partecipare alla vita politica; vero è anche che la cultura islamica sostiene che le donne accedono a specifici diritti sociali, con il paradossale risultato che non sempre queste avvertono come ingiustizia la diversità della loro condizione, ricevuta piuttosto come abitudine culturale.
Anzi, alcune, come accade nella vicina Turchia e non solo, vestono il velo e frequentano la moschea in nome di una re-islamizzazione come conquista emancipativa e di una modernità propria, non occidentalizzata e in rotta con lo Stato laico nazionalista. O, ancora, accade di frequente oggi che madri che hanno sostenuto battaglie per non mettere il velo si scontrino con figlie che non solo decidono di metterlo, ma che insistono sui precetti della religione in materia di alimentazione e sul rispetto del Ramadan.Usanze che assumono forte sapore identitario e che diventano anche strumenti di protesta contro la “invadente” cultura europea ed occidentale.Vero è anche che esistono donne arabe, e mediorientali più in generale, che hanno lottato e continuano a lottare, diversamente dalle altre, per ottenere più spazio per i propri diritti, ponendosi come grande forza ispiratrice del cambiamento.
In Iran, per esempio, le donne hanno avuto un ruolo determinante nelle proteste di massa promosse all’epoca delle elezioni del giugno 2009. E continuano a chiedere ampie riforme nel campo dei diritti umani e maggiore libertà pagando, spesso, un prezzo elevato. O, ancora, in Arabia Saudita, dove è persino proibito alle donne di guidare, un gruppo di attiviste ha sfidato il divieto di guida lanciando la campagna “Women2Drive” a cui hanno preso parte decine di donne, molte delle quali poi arrestate e costrette a sottoscrivere un impegno a non riprovarci mai più. Molte, ovviamente, le organizzazioni internazionali, come ONU e Amnesty International, che lavorano al fianco di queste donne coraggiose perchè cessino le violazioni dei diritti umani nei loro confronti e siano adottate leggi che pongano fine alla discriminazione di genere.
Quello che a me, tuttavia, in questo articolo, conta rilevare è che se è indiscussa l’azione delle politiche occidentali di porre fine, nei paesi mediorientali e africani, alle leggi discriminatorie che pregiudicano la parità di diritti tra uomini e donne per favorire, al contempo, l’adozione di garanzie legislative e costituzionali per l’uguaglianza di genere, altrettanto indiscussa deve essere l’attenzione al riconoscimento e al rispetto di usi, costumi e culture altre e diverse, anche se riluttanti ad ogni cambiamento ed occidentalizzazione. Una precisazione, quest’ultima, perché si eviti di incorrere nel seducente rischio di dettare un “unico modello” di donna, coincidente necessariamente con quello occidentale.