Il miglior modo per celebrare le donne nella giornata internazionale a loro dedicata è – ritengo – assumere e/o rinnovare l’impegno di portare loro rispetto e di non dimenticare le tante che con coraggio e sacrificio hanno speso la vita per un mondo migliore.
Racconto le loro storie da sempre e continuerò a raccontarle perché //8 marzo sia ogni giorno.
E’ ancora più bello quando è un uomo a voler rendere omaggio ad una donna raccontando la sua storia. Grazie Prof. Tito Lucrezio Rizzo. (Antonella Giordano)
Nel 1880 Vittorio Emanuele Orlando alle soglie del prospettato incremento del suffragio, ritenne necessario escluderne gli analfabeti e le donne, in quanto, per differenti motivazioni, ritenuti influenzabili nella libera espressione del loro voto.
Escluso che quello del voto fosse un diritto naturale, ne evidenziò in seguito la natura squisitamente positivistica, in quanto era lo Stato che lo aveva concesso, in una sua fase storicamente evoluta, ai cittadini dotati di una minima capacità intellettuale o reddituale. Le donne restavano escluse dal diritto in parola in base ad un contrastato principio, che però – così spiegava l’A.- “per il nostro diritto pubblico si riannoda[va] con l’esclusione generale della donna da quasi tutti gli uffici pubblici”.
Il 12 luglio 1888 il presidente del Consiglio Francesco Crispi, pur essendo fautore del suffragio politico universale, si batté contro la concessione del voto amministrativo femminile, cosi ragionando: “per me la donna, regina dei cuori, padrona del genere umano finché resterà estranea alle lotte della pubblica cosa, non sarà più il tesoro delle famiglie, non sarà la provvidenza e la previdenza del marito e dei figli, se la caccerete nella politica. Sensibile ed impressionabile, come essa è, non potrebbe avere sempre la mente serena e tranquilla quando si occupasse della cosa pubblica.”
Dietro l’apparente preoccupazione delle liti politiche che sarebbero potute sorgere in famiglia, tradì il suo reale timore di una possibile influenza sulla donna dai “confessionali”. E concluse: “Lasciamo o signori, lasciamo la donna ai suoi doveri domestici, non turbiamo la vita privata, non confondiamo gli interessi politici con gli interessi della famiglia”.
Dovettero passare ben 30 anni fino a che, nel discorso pronunziato alla Camera il 26 aprile 1918 in tema di diritto elettorale, Orlando avrebbe spiegato di aver mutato avviso sul voto alle donne rispetto al passato, precisandone le ragioni: ”non tanto l’opinione pubblica è mutata–disse– sono mutati i tempi: è mutata la maniera di considerare il problema”. Non condivideva le rivendicazioni del femminismo oltranzista, che “considera[va] la negazione del diritto di voto, quasi come un disconoscimento dei diritti essenziali inerenti alla personalità”; ma in seguito all’accresciuto impiego della manodopera femminile, moltiplicatosi nel periodo bellico, gli era parso opportuno trarne delle conseguenze anche sul piano del diritto elettorale.
Questo è l’humus sociologico, storico politico e giuridico nel quale va inquadrata la figura di cui andremo a discorrere. La storia dell’Ottocento è povera di figure femminili eminenti, non perché ne mancassero, ma perché i forti condizionamenti imposti dalla società del tempo, impedirono che potessero emergere e distinguersi.
Appare pertanto significativo ricordare una delle poche donne che si batterono per la propria emancipazione, con la forza e la determinazione di chi è destinato a precorrere i tempi: la marchesa Clelia Pellicano Romano, in arte Jane Gray.(Napoli 29 maggio 1873-Castellammare di Stabia, 2 settembre 1923).
Figlia del magistrato e deputato della Sinistra storica Giandomenico Romano e di Pierina Avezzana, a sua volta figlia del noto generale garibaldino Giuseppe Avezzana e di una dama inglese, ricevette in famiglia un’educazione laica e di stampo anglosassone, che le consentì una perfetta padronanza oltre che della madre lingua, del francese e dell’inglese; ma fu «meridionale» per la foga dell’ingegno, l’esuberanza del sentimento e della sensibilità artistica.
La menzionata laicità, fu perfettamente coniugata con la sua intensa Fede, di cui resta testimonianza, oltre all’operoso e costante impegno sociale in favore degli “ultimi”, un gesto di non marginale valore simbolico, quale il dono che la marchesa Pellicano volle fare alla chiesetta dell’Annunziata di Gioiosa Jonica: una splendida statua della Madonna, con sottostante targhetta bronzea recante questa scritta: ”Benedetta da S.S. Pio X. Addi’ XIX ottobre MCMXII nella sua cappella privata. La marchesa Clelia Pellicano-Romano dona”.
Appena diciannovenne sposò il marchese Francesco Maria Pellicano di Gioiosa Jonica, deputato al Parlamento. La coppia visse fra tale località della Calabria -donde l’Autrice mutuò spunti narrativi ed ambientazioni per i suoi scritti- e Castellammare di Stabia, nonché a Roma, dove nella prestigiosa abitazione di Piazza di Spagna amava organizzare salotti letterari, cui parteciparono Statisti come V.E. Orlando, Di Rudinì, Salandra, ed intellettuali come Matilde Serao, Luigi Capuana, Salvatore di Giacomo, Trilussa, Giulio Emanuele Rizzo.
Trascorse dunque le sue intense giornate tra lo Jonio ed il Tirreno, con la parentesi di alcuni viaggi all’estero, dove partecipò a dei congressi in occasione dei quali illustrò la condizione delle donne e di quelle calabresi in particolare.
Nel 1912 promosse una sottoscrizione nazionale ed elargì un suo personale contributo per agevolare il trasporto e la cura dei malati, considerata quale un diritto fondamentale dei cittadini.
Nel 1914 prese parte ad un Convegno indetto a Roma per promuovere i diritti sociopolitici delle donne e per perequarne il salario a quello maschile.
Rimasta vedova a soli 36 anni, aveva dovuto personalmente seguire i 7 figli occupandosi, al contempo, dell’amministrazione del patrimonio agro- industriale del defunto marito.
Svolse altresì la professione di giornalista, fatto assai raro in quell’epoca- con qualche clamorosa eccezione come la ricordata Serao – e fu corrispondente della prestigiosa Rivista politico-culturale La Nuova Antologia, ove pubblicò il saggio–inchiesta Donne e industria nella Provincia di Reggio Calabria.
Collaborò anche con le riviste Flegrea e La Donna, nella qual ultima nel 1909 pubblicò degli articoli redatti come corrispondente da Londra, dove rappresentò il Consiglio Nazionale Donne Italiane al Congresso Internazionale femminile. Ivi si fermò per una settimana incontrando le rappresentanti di 21 Stati di vari Continenti. Alla cerimonia inaugurale espresse un significante auspicio :” Ricordatevi voi donne d’ogni razza, d’ogni paese – da quelli dove splende il sole di mezzanotte a quelli in cui brilla la Croce del Sud – qui convenute nella comune aspirazione alla libertà, all’uguaglianza, strette da un nodo di cui il voto è il simbolo, ricordatevi che il nostro compito non avrà termine se non quando tutte le donne del mondo civilizzato saranno sempre monde dalla taccia di incapacità, d’inferiorità di cui leggi e costumi l’hanno bollate finora!».
Coerentemente con la battaglia intrapresa anche in sede internazionale, nel 1910 curò la prefazione al libro di Carlo Gallini La legge e la donna, mirante a sensibilizzare il Parlamento sul tema del diritto elettorale delle donne
Fu autrice del romanzoVerso il destino e delle raccolte di racconti Novelle calabresi eCoppie, con lo pseudonimo di Jane Grey mentre nell’edizione riveduta e corretta di quest’ultima opera, con il titolo mutato in La vita in due, si firmò con il vero nome di Clelia Pellicano.
Lei stessa avrebbe così spiegato la ragione della precedente scelta: «parecchie persone della famiglia non apprezzavano la mia trasformazione e mal si rassegnavano a vedermi ‘stampata’, allora mi nascosi sotto lo pseudonimo di Jane Gray,” che mutuò da un’infelice regina inglese che le era molto cara.
Nel lasso di tempo trascorso tra le due redazioni, vogliamo nuovamente evidenziare che il ruolo femminile era stato drammaticamente rivalutato durante l’esperienza della Prima Guerra mondiale, che aveva visto l’”altra metà del cielo” impegnata nei campi e nelle fabbriche a sostituire gli uomini chiamati al Fronte. Nel nuovo contesto, erano evidentemente cadute anche le remore psicologico-sociali a che una donna potesse appalesarsi nella sua vera identità.
Negli scritti della Nobildonna, quasi sempre ambientati in centri grandi e piccoli della Calabria, sua terra d’elezione, è netta l’impronta del verismo e l’influenza di Flaubert, Maupassant e Verga, nonché di Capuana, Fogazzaro e Grazia Deledda, ai quali ultimi dedicò espressamente alcune novelle. Nella narrazione, che sovente assurge ai livelli di vera e propria «prosa d’arte», troviamo descrizioni che rivelano un forte spirito di osservazione, una non comune capacità di introspezione psicologica e, sovente, una sottile e disincantata ironia.
Ecco allora alcune rapide pennellate su «pretoni panciuti dalle larghe facce apoplettiche» che sfilavano in processione; contadini che ballavano «un mezzo passo di tarantella che faceva pensare ad una danza d’orsi ammaestrati»; la rubacuori di paese «alta, provocante, superba, con seno che le scoppiava tra i lacci del corpetto»; «l’arcigno Pubblico Ministero dalle basette sale e pepe, dalle mani affilate e bianche, dal sorriso enigmaticamente crudele»; il giudice bonario che ricorre a «motti lepidi, conditi da parole in vernacolo e da una mimica efficacissima» ed un’ancor vasta galleria di personaggi. Mariti ubriachi e violenti, mogli rassegnate e sottomesse, suore tetre, fattucchiere di paese, eredi avidi e senza scrupoli, politicanti di provincia pronti ad ogni compromesso, nobili decaduti e borghesi rampanti, infanticide prive di rimorsi: sono tutti protagonisti di un’umanità meschina, corrosa da gelosie, passioni, bigottismo, trame d’alta finanza e bassa politica, da cui si ricava il quadro di una società che, dietro un perbenismo di facciata, era moralmente assai meno adamantina di quanto si usa credere nei frettolosi rimpianti dei «bei tempi andati».
Nei racconti non mancano naturalmente figure egregie, eroi positivi per nobiltà di cuore e di intelletto, che consentono al lettore di trarre sempre e comunque la morale del trionfo del bene sul male, segno del ragionato ottimismo dell’autrice, impegnata a scrivere racconti che non sono di mera evasione o di puro diletto, bensì di alta passione civile, essendo finalizzati al riscatto dei derelitti di ogni genere.
Scenario dei drammi del cuore umano rappresentati, sono i paesaggi di incomparabile bellezza della terra amata, osservati magari da un treno che corre tra «siepi vive di gerani e di timo, d’acetosella e di lavanda, tra i campi verdi d’agrumeti e lo Jonio glauco immenso che si confonde col cielo… Appennini calabri che appaiono una gloria d’oro, prati dove le spighe porporine e bianche delle bettoniche, le coccole variopinte dei berberi e le corolle turchine dei fiordalisi si cullavano alla brezza vespertina».
Donna di straordinaria bellezza e di non comune intelligenza, la Pellicano non fu femminista nel senso attuale, cioè fautrice di una vita anticonformista, bensì in ragione del suo impegno in favore delle donne meno fortunate, laddove quelle appartenenti al suo ceto – da lei deprecate – paghe della loro condizione di benessere, non avvertivano il bisogno né di battersi per il suffragio universale, né per i diritti civili e politici.
La sua lotta per il riscatto delia donna va inquadrata in quella più ampia per l’ascesa del proletariato dove, come scrisse nella prefazione al libro La donna e la legge, era «più stretta l’unione fra i coniugi, meno frequente l’adulterio, più parca e onesta la vita, scarsissimo il celibato e numerosa la prole», mentre nelle classi elevate la donna «moglie e madre mediocrissima», era aiutata da istitutrici e cameriere che la alleviavano dai «doppio peso del coniuge e della prole».
In tale prefazione, attaccò lo stereotipo della vestale domestica, angelo del focolare e regina della casa, frutto di una tradizione maschilista per la quale «la cultura, l’indipendenza, l’evoluzione della donna, il formarsi in lei di una nuova coscienza civile e di un più alto carattere; lo svilupparne il senso della dignità e della responsabilità, il toglierla dallo stato parassitario per farne un essere pensante e cosciente, sono attentati a quella sua femminilità, squisitamente impulsiva ed illogica, fatta di enigmi, di insidie, di capricci, di ignoranza e di superstizione». Il femminismo – proseguì con grande lucidità di analisi – non nacque dalle gesta «eroicomiche delle suffragette», bensì dalla rivoluzione industriale per cui le donne, lasciate le occupazioni domestiche, erano entrate a far parte del circuito di sfruttamento del mondo del lavoro esterno. Con tali convincimenti, nel 1909 aveva rappresentato l’Italia a Londra ad un simposio internazionale per la conquista del suffragio universale femminile, che doveva unirsi al più «ampio accesso alle professioni liberali, affinché ciascuna – scrisse – seguendo la propria inclinazione, possa guadagnarsi il pane nel modo più conforme alle attitudini e ai gusti propri, abolendo quel non senso per cui dopo averci aperto a due battenti le porte dell’Università, piegate a faticosi studi, a dure discipline, ci si rimanda a casa con uno straccio di laurea, buono soltanto a decorare il salottino paterno».
A distanza di quasi un secolo, rendiamo omaggio ad una figura nobile di cuore prima che di rango, la cui avvenenza esteriore rispecchiava la mirabile bellezza della sua anima.