Quante volte, nel corso della storia, l’universo femminile è stato limitato da una condizione di vita inibente? Una donna, sostiene la scrittrice Virginia Woolf, nell’opera intitolata Una stanza tutta per sé, non aveva mai fatto “tremare un impero, né condotto in battaglia un esercito”, a eccezione della Pulzella d’Orléans, che pur tuttavia ebbe la straordinaria capacità di rimanere sempre “dietro le quinte”. Rimediare a questi torti è il primo passo da compiere per restituirle il ruolo che le spetta. Sappiamo bene che le parole messe su carta sono state “scritte da esseri” umani, ma la prospettiva che le contraddistingue riflette il punto di vista degli uomini, visto che alle donne non era dato pubblicare alcunché! Già nella prima lettera a Timoteo di San Paolo, 2 (Sacre Scritture), si legge: “che non si consenta mai a una donna di insegnare, né di usurpare l’autorità all’uomo, che resti in silenzio nelle assemblee, perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia”. Ciò significa che per un lungo periodo della nostra storia, qualunque donna avesse voluto dedicarsi alla scrittura, per quanto incline e appassionata, non avrebbe potuto farlo! Bisognava infatti che andasse a scuola, ma a quei tempi non era possibile.
La Woolf sosteneva che se Shakespeare avesse avuto una sorella particolarmente incline allo studio, le sue potenzialità sarebbero rimaste inespresse, poiché a quei tempi era quasi impossibile potersi istruire. L’autrice inglese affermava inoltre che, pur se ciò fosse stato possibile, “sarebbero arrivati i genitori a dirle che doveva rammendare le calze o che doveva preparare lo stufato, e che non bisognava perdere tempo a fantasticare tra libri e carte”. Insomma, una donna nata in quei lontani anni, con un talento poetico e non solo, era destinata a essere infelice e in perenne lotta con se stessa. Lo si riteneva infatti un “peccato contro il sesso”; il costume, le buone maniere, la moda, il ballo, i giochi e i vestiti erano le uniche doti da bramare, in quanto scrivere, leggere, indagare, pensare, avrebbe oscurato la grazia, consumato il tempo, impedito le conquiste amorose. L’ottuso governo di una casa servile era ritenuto l’unico impiego appropriato per una fanciulla. Virginia prosegue assicurando che “l’ipotetica” sorella morta di Shakespeare “nascerà, verrà, se lavoreremo per lei” e che “lavorare così, pur nella miseria e nell’oscurità, vale la pena”.
Una riflessione giunga spontanea: oggi, fortunatamente, è possibile avere una stanza tutta per sé, ma una donna rinuncia quasi del tutto a ciò che aveva caratterizzato la sua primordiale condizione. Ognuna di noi, di fatto, ha l’assoluta necessità di veder realizzate le proprie aspirazioni grazie al fatto di amarsi più di quanto un uomo abbia saputo fare nei suoi riguardi. Le parole che si scrivono, si leggono e si ascoltano sono espressioni vive e sincere della parte più autentica di noi stesse, che hanno il potere di sublimarci, purificarci ed elevarci. Diventa estremamente importante, dunque, cercare la verità che riposta nel fondo della propria anima. Sarebbe auspicabile, in virtù di questo, riuscire ad ascoltarla e farla emergere, evitando di rinchiuderla e abbuiarla, per farla invece splendere e vivere. Cerchiamo una “stanza tutta per noi” che avrà la parvenza della scrittura, della musica, della pittura, della scultura, della scienza, della preghiera, della politica, dello sport e via dicendo, per piacere a noi stesse innanzitutto!