Selfie e fotografie mettono a rischio la biodiversità, oltre che, talvolta, chi li scatta. E la colpa di tutto è dei social, strumento potente con molti lati positivi ma altrettanti negativi, indagati da un recente studio focalizzato sull’impatto che hanno sugli habitat e la natura.
Un aspetto, questo, finora poco analizzato ma di grande importanza. I social infatti, come ormai abbiamo capito, sono determinanti nelle scelte di viaggio delle persone, e il turismo naturalistico e fotografico non fanno eccezione. Negli ultimi anni dunque anche questa tipologia di viaggio è aumentata, trainata da foto, reel e Storie che riempiono i nostri schermi.
L’impatto dei social e della fotografia sulla biodiversità
Lo studio, dal chiaro titolo ‘L’impatto dei social media e della fotografia sulla biodiversità’ e pubblicato a inizio agosto su ‘Science of the Total Environment’, ha indagato l’impatto delle foto e dei selfie sulla natura. In sostanza, l’uso dei social media è un fattore di rischio per la conservazione degli habitat.
Il tutto assomiglia sempre più a un circolo vizioso: la ricerca di foto sempre più belle e particolari sta cambiando anche il modo di vivere la fotografia naturalistica, non solo perché questa non è più un affare per ricchi – dato che grazie alle fotocamere di qualità ormai presenti sugli smartphone ha subito un ampia diffusione – ma anche perché gli stessi comportamenti dei fotografi in mezzo alla natura sono mutati.
La ricerca di contenuti unici e sorprendenti, che attirino like, ammirazione e traffico sui social, spinge ad approcciare zone particolari, sempre più inaccessibili e complesse, alla ricerca di flora e fauna che spesso coincidono con specie minacciate, endemismi a corto raggio e caratteristiche paesaggistiche uniche. Di conseguenza, l’asticella si sposta sempre più in alto, aumentando le pratiche rischiose e quelle non etiche, senza contare che in questo modo si alimentano aspettative irrealistiche sulla natura. Proprio come succede ormai per tantissime destinazioni di viaggio, che alla prova dei fatti risultano spesso deludenti.
Il tutto assomiglia sempre più a un circolo vizioso: la ricerca di foto sempre più belle e particolari sta cambiando anche il modo di vivere la fotografia naturalistica, non solo perché questa non è più un affare per ricchi – dato che grazie alle fotocamere di qualità ormai presenti sugli smartphone ha subito un ampia diffusione – ma anche perché gli stessi comportamenti dei fotografi in mezzo alla natura sono mutati.
La ricerca di contenuti unici e sorprendenti, che attirino like, ammirazione e traffico sui social, spinge ad approcciare zone particolari, sempre più inaccessibili e complesse, alla ricerca di flora e fauna che spesso coincidono con specie minacciate, endemismi a corto raggio e caratteristiche paesaggistiche uniche. Di conseguenza, l’asticella si sposta sempre più in alto, aumentando le pratiche rischiose e quelle non etiche, senza contare che in questo modo si alimentano aspettative irrealistiche sulla natura. Proprio come succede ormai per tantissime destinazioni di viaggio, che alla prova dei fatti risultano spesso deludenti.
Il problema è rilevante: secondo stime citate dallo studio, circa la metà della popolazione mondiale interagisce con almeno una piattaforma di social media, ormai sempre più basati su immagini, che siano statiche o video.
Flora, fauna e paesaggi hanno quindi invaso i social, che sia per identificare una data specie, o per promuovere tour e attività ricreative naturalistiche, sia semplicemente per mostrare e condividere i propri trofei, le proprie foto-capolavoro.
Non che tutto sia negativo nella fotografia naturalistica sui social, precisa lo studio: i contenuti possono anche essere sfruttati da scienziati e professionisti della gestione del territorio per scopi di conservazione. Ad esempio nel 2023 sono state scoperte quattro nuove specie della Drosera, coinvolgendo le persone in una ‘scienza dei cittadini’ e ampliando in modo mirato anche la comunicazione scientifica.
Un (involontario) favore a bracconieri e commercianti illegali
Ma occorre essere molto consapevoli dei danni e dei fattori di rischio che la fotografia naturalistica sul web comporta, a volte anche all’insaputa di chi la pratica e non riflette troppo sulle conseguenze delle proprie azioni.
Dapprima sul campo, con danni diretti e indiretti e il calpestamento, come abbiamo visto. E poi dopo: non solo perché le proprie foto possono incentivare molte persone a riprodurre lo scatto e quindi ad andare negli stessi posti a caccia degli stessi soggetti.
Ma anche perché, ad esempio, attraverso le foto postate diventa possibile capire le posizioni specifiche di alcune specie rare o minacciate, magari fino a quel momento sconosciute: un bel favore per chi pratica il bracconaggio o il commercio illegale.
“La fotografia naturalistica nel suo complesso non può più essere considerata innocua, sostenibile o non consumistica”, afferma lo studio, aprendo a una serie di complesse questioni: è impensabile controllare o limitare l’accesso alle specie o agli hotspot naturali che sono il bersaglio dei contenuti dei social media.
Un codice etico per i social
Ecco perché gli autori dello studio chiedono un codice etico per la promozione della flora e della fauna sui social media, considerando quelle più a rischio per colpa dei social e quelle rare o minacciate. Chiedono anche di avviare soluzioni miste, che alternino gestione sul campo/restrizioni all’accesso nei siti chiave, oltre al coinvolgimento di tour operator, gruppi naturalistici, amministratori di gruppi di interesse sui social media e gestori del territorio. Serve anche una maggiore coscienza civica ed ecologica, quindi un’educazione che diffonda i comportamenti da tenere per minimizzare i danni che si causano agli habitat, maggiore consapevolezza, e il rispetto di ciò che ci circonda.
Partendo forse da una constatazione che stiamo sempre più perdendo: non abbiamo diritto a fare tutto quello che vogliamo.