Alla fine degli anni Novanta, pur essendo parte dell’unione monetaria che ha dato luogo all’Euro come moneta unica, la spesa complessiva delle nostre amministrazioni pubbliche (senza contare gli interessi sul debito) era scesa sotto il 40 per cento del reddito nazionale: 39,8%. Negli anni successivi, fra il 2001 e il 2006 (secondo governo Berlusconi), risalì al 44%, due punti sopra il livello degli anni Ottanta, durante i governi di coalizione fra democristiani e socialisti, quando il nostro debito pubblico cominciò a crescere rapidamente. Nel 2011 aveva superato il 45%. Soltanto il 5% di differenza, quindi non una differenza eclatante.
Una spesa pubblica alta, esclusi sprechi e furti, è un bene perché implica sia più servizi ai residenti sia una miglior distribuzione del reddito prodotto. Il problema non lo crea una spesa pubblica alta finanziata da un prelievo fiscale corrispondente, ma una spesa pubblica che è volutamente in deficit perché non si vuole realizzare l’indispensabile prelievo fiscale e non è adeguatamente progressiva.
Evidentemente si credeva che entrando nell’area euro, come per miracolo, un paese come l’Italia acquistasse i parametri economici della Germania; e adesso si ripete la stessa litanìa della riduzione della spesa pubblica, dimenticando di nuovo che l’Italia non è la Germania. Anche perché la spesa pubblica in Italia svolge funzioni sottilmente diverse dalla Germania, e probabilmente è anche misurata in modo diverso se si vanno a consultare le definizioni dei vari Enti preposti.
Tanto per cominciare la Germania non ha una delinquenza organizzata come la nostra, almeno in questo siamo leader nell’area euro, e in Italia alle 4 mafie italiane storicamente (mafia siciliana, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita) preesistenti si sono aggiunte la mafia romana e quelle proprie di alcune etnìe adesso presenti in Italia.
Nel passato i tentativi di ridurre la spesa non duravano nel tempo perché si scontravano contro due ostacoli: la volontà di non tagliare le spese nei settori “politicamente protetti” (appalti, consulenti, eccetera) e l’impossibilità politica di tagliare spese utili. Negli ultimi anni il secondo vincolo è caduto: i governi tagliano allegramente, sfruttando l’inflazione per non adeguare la spesa in termini reali, le spese utili come sanità, assistenza, previdenza e istruzione pubbliche.
Caratteristica del governo Monti fu, come da attendersi da un bocconiano “doc”, di stendere la lista dettagliata dei tagli «con nome e cognome», ad esempio con la chiusura di 37 tribunali e 220 sedi distaccate.
Se la proliferazione delle sedi giudiziarie fosse stata veramente una delle ragioni per la lentezza e i costi, soprattutto della giustizia civile, allora ci dovremmo chiedere come fosse possibile che una riduzione di risorse si traducesse in un aumento di prestazioni: e infatti il servizio giustizia in Italia non è migliorato.
La causa sta nei meccanismi operativi, e finché non saranno cambiati la riduzione di mezzi si tradurrà sempre in un peggioramento, e non in un miglioramento. La scelta di Mario Monti di affidare queste proposte a Enrico Bondi, un manager esperto di ristrutturazioni aziendali, ricordava la visione di alcuni governi dell’Italia come “impresa”; gli effetti nel medio periodo sono stati simili a quelli di certe ristrutturazioni aziendali: devastanti.
I tagli alla spesa attuati in passato e quelli previsti nella prossima finanziaria, come i tagli reali sulle pensioni non da miseria, vanno comunque a ridurre la retribuzione “nell’arco della vita” delle classi povere. Inoltre il Governo italiano, con i continui tagli reali alle pensione povere sta dichiarando nei fatti che chi crede di raggiungere una pensione sufficiente a sopravvivere accumulando contributi sbaglia.
Elenchiamo qui alcuni fatti scomodi, che i media non ricordano quasi mai chiaramente, perché sono talmente decisivi che confondere le idee agli elettori è indispensabile per far passare alcune decisioni politiche scomode.
Prima: non è pensabile che si possa ridurre in modo significativo la spesa pubblica solo riducendo gli sprechi della gestione politica, perché se ad esempio si togliessero tutti i consigli provinciali le attività delle provincie restano necessarie, a meno che non si vogliano abbandonare al degrado del tempo strade e scuole.
Seconda: si vuole ridurre la spesa pubblica affermando che lo Stato sociale italiano fornisce servizi senza distinzione di reddito a classi medie e medio alte, il più delle volte non riuscendo a proteggere i veri deboli. Nella realtà le modifiche proposte, come il taglio in termini reali delle pensioni non da miseria, viene attuato per ridurre ulteriormente la protezione dei più sfruttati. A gettito invariato, per ridurre la pressione fiscale sulla classe povera occorre aumentarla sulla classe ricca. E’ ovvio, come è ovvio che si possa fare agevolmente, a parte l’evasione fiscale, ma gli ultimi governi vanno nel verso opposto. Tra destra e sinistra cambiano le sfumature.
Terza: è sbagliato vedere i “tagli” come unica leva di riequilibrio, perché ridurre la spesa pubblica comporta la riduzione della già insufficiente spesa pubblica per assistenza, previdenza, sanità e istruzione. Il guaio è che il debito pubblico italiano è stato trasformato con l’euro da debito del battitore di moneta (quindi gestibile dal Governo) in debito “reale”, poiché non vi è più una entità che voglia battere (o bruciare) moneta in funzione degli interessi del popolo italiano. Essendo un debito “vero” occorre rispettare i criteri UE, ma i criteri UE vincolano il deficit, non proibiscono di aumentare il prelievo fiscale per incrementare i servi dello Stato ai residenti[1].
Quarta: la stagnazione in cui l’Italia si trova non è dovuta alla spesa pubblica (tutte le teorie economiche, e il buon senso, dicono che più il principe spende meglio le cose vanno), non è dovuta alla necessità di ridurre il debito (la scelta di rinegoziarlo non essendo al momento attuabile in queste condizioni di debolezza nazionale), ma è dovuta soprattutto alla perdita della capacità di essere competitivi nell’esportazione e nella tecnologia, a un sistema di intermediari finanziari parassitario e inefficiente, a un sistema paese che per le carriere si basa sul nepotismo, alla rendita dovuta alle collusioni nei settori economici a domanda rigida, e all’evasione fiscale.
Quinta: abbassare le tasse che gravano sul lavoro dipendente a basso reddito è un proclama di moda. Ma quando contemporaneamente si fa crescere la spesa delle stesse famiglie a causa di tagli ai servizi pubblici, siamo di fronte a una commedia contabile.
Sesta: ridurre la durata e l’importo delle pensioni sta costringendo milioni di italiani[2] a riprogettare il futuro, mentre la retribuzione differita corrisposta dallo Stato (che ha avuto il gran merito di dare decenni di pace sociale) dovrebbe adesso essere ricavata alzando nella misura necessaria la contribuzione dei lavoratori attivi, in modo che possano accantonare in prima persona quanto necessario. E’ costoso? Certo, ma è quello che accade in ogni famiglia quando i genitori non lavorano più: vanno in carico agli adulti, ed è un carico molto pesante. E se il figlio è unico è più pesante ancora.
Settima: il sistema contributivo così come è realizzato non protegge dall’inflazione nel medio periodo, e ormai neanche nel breve. E questa non protezione dall’inflazione reale è la stessa ragione che non ha fatto decollare le pensioni integrative e spinge gli italiani verso il mattone da un secolo. Togliere stabilità a un reddito, qualunque docente di finanza lo sa, ne diminuisce il valore: togliere la certezza di reddito del posto fisso stimola il risparmio, la tesaurizzazione, non certamente la crescita, che vuole fiducia nella stabilità. La lezione americana del 2009 non solo non è stata capita, ma nemmeno ascoltata.
Ottava: la battaglia parlamentare di cui tanto si favoleggia sui media è una recita ad uso dei lettori, poiché ogni provvedimento che vada a colpire le classi povere passerà, proprio perché questo governo segue una politica neoliberista. Viceversa essendo questo governo neoliberista ogni provvedimento va a colpire la classe povera.
Nona: non si riescono ad evitare i provvedimenti che segano l’albero per cogliere i frutti, come le regalizzazioni (pardon: privatizzazioni) che sostituiscono al padrone pubblico un padrone privato; certamente più efficiente nel fare profitti, ma solo in quello. Perché è più comodo svendere il negozio che ci dà da mangiare che gestirlo bene.
Il Governo in carica segue l’ideologia neoliberista, che ritiene che meno Stato è comunque meglio, e in questo almeno ci riporta al buon tempo antico di un paio di secoli fa, quando i vecchi morivano in miseria, l’assistenza sanitaria era un sogno, le scuole pubbliche non c’erano. E quando la miseria dilaga la scelta principale per la classe sfruttata è l’emigrazione.
Decima: oggi (ancora per un po’) l’emigrazione viene verniciata come una scelta ottimale, omettendo ad arte che l’emigrazione (dei poveri, non degli altissimi dirigenti) ha sempre costi umani e sociali imponenti. Togliamoci l’illusione (figlia di decenni di passata partecipazione al governo di partiti popolari) che questo governo si porrà questi problemi: l’approccio aziendalistico comporta lo scaricare più costi possibile all’esterno, senza riguardi. Un cambiamento di rotta , e di scelte politiche, sarà possibile solo quando sarà attiva una opzione politica diversa, di cui per adesso non si vede la minima traccia perché anche la sinistra, nella realtà, ragiona da neoliberista. Ci sono voluti sessanta anni di campagna comunicativa per far acquisire all’approccio aziendalistico il dominio di tutte le scuole di economia, non occorrerà di meno per invertire il processo.
Ma il processo potrà essere invertito? Agli inizi del 1900 la tecnologia correva, le risorse naturali erano disponibili, il Pianeta aveva pochi abitanti, l’Europa era dominata dalla cultura del progresso. Per i prossimi ottanta anni le previsioni demografiche, climatiche, sulle risorse naturali, sono catastrofiche, ancora di più per una Europa[3] che gioca di rimessa, nano fra giganti che crede di essere un gigante tra nani.
[1] Usiamo qui il termine “residenti” anziché “cittadini” poiché con la legislazione attuale anche le persone senza cittadinanza, anche residenti illegalmente, godono dell’assistenza, istruzione, sanità pubbliche, e ogni tentativo dei Governi di differenziare le prestazioni è sistematicamente abolito dai Tribunali. I Tribunali applicano le leggi in vigore, quindi fino a quando il Legislatore non provvederà alle necessarie modifiche il problema resta.
[2] Qui per “italiani” intendiamo le persone di origine italiana, quindi residenti in Italia da almeno 60-70 anni, e quindi “prima” che iniziasse l’ondata migratoria, che quindi sono vissuti in un contesto di Previdenza Pubblica della durata di 3-6 decenni che ha influenzato le loro scelte di vita.
[3] Qui per “Europa” non si intende l’area UE, oppure l’Europa Occidentale, né l’area NATO, ma l’Europa come da definizione geografica (da Gibilterra agli Urali), storica (società intrisa di cristianesimo) e culturale (erede delle culture latina e greca).
Nella terza decisione politica, che cosa significa: per incrementare i servi dello Stato ai residenti?