Traduci

ALLA RICERCA DI SYBARIS E THURII. IL PAESAGGIO ANTICO  di Nilo Domanico (Arbor sapientiae editore)

L’Autore

Nilo Domanico è un ingegnere di chiara fama e persona di straordinario impegno per il Bene Comune. L’intervista di Antonella Giordano, a cui si rimanda (https://www.internationalwebpost.org/nilo-domanicoingegnere-delle-meraviglie/ ) ne coglie tutti i profili. In questi giorni è pubblicato il suo libro frutto di un meticoloso lavoro sapientemente descritto  dagli autori dell’articolo (nota di redazione).

ALLA RICERCA DI SYBARIS E THURII. IL PAESAGGIO ANTICO 

Quando i primi coloni Greci arrivarono sulle coste joniche in cosa si imbatterono? Come era configurato il Paesaggio Antico? Ormai è storia nota che Sybaris fu fondata tra il Crati ed il Coscile. Ma quale era l’alveo dei due fiumi a quei tempi? Sfociavano al mare ognuno seguendo il proprio corso oppure erano uniti come ai giorni nostri? La linea di costa era quella attuale? Si narra che sulla costa vi fosse un’area paludosa e lagunare. Ma tali lagune e paludi dove erano allocate rispetto al Paesaggio Attuale? Dove si trova la Tomba di Erodoto, che visse e morì a Thurii?

La moltitudine di dubbi espressi dai più eminenti studiosi sulla reale allocazione di Sybaris e Thurii, potrebbero trovare conforto in questo studio che ha messo in interconnessione differenti discipline, Tale ricerca conduce al fatto che Sybaris, Thurii e Copiae non siano state edificate una sull’altra, non siano state sovrapposte o, quantomeno tale sovrapposizione sia solo parziale e riguarda le parti marginali delle sopra citate città. Probabilmente solo Copiae sarebbe ubicata nell’area del Parco Archeologico di Sibari, al di sopra delle parti periferiche di Thurii e Sybaris, mentre il cuore delle due polis potrebbe essere ubicato in un altro luogo.

Uno dei più eminenti studiosi di Sibari e della Magna Grecia, rispetto all’attuale Parco Archeologico di Sibari, afferma che: “Come per Sibari, anche per la fase di Thurii mancano conoscenze relative alle zone pubbliche, agli edifici monumentali, alle necropoli, alle strutture di difesa.” (P.G. Guzzo)

È d’obbligo far notare che secondo fonti autorevoli era Sibari posta in un luogo basso, e dentro una valle (Athenaeus), il che è impossibile nell’attuale sito del Parco Archeologico, ubicato in piena pianura ed all’epoca a poche centinaia di metri dal mare e dunque dal Porto.

In aggiunta, un’altra notizia interessante ci viene fornita da Timeo (che visse nel IV sec. a.C. e potrebbe aver visto le rovine di Sybaris) e tramandata anche da Athenaeus e cioè che “…i Sibariti avrebbero costruito dei canali sotterranei per potere agevolmente fare arrivare il vino, di cui dovevano essere grandi produttori, fino al mare, dove una parte veniva caricata sulle navi e trasportata all’estero, ed un’altra parte veniva trasportata in città per mezzo di navicelle…”

Ma se Sybaris fosse stata ubicata sulla costa, dunque in prossimità del porto, che bisogno di trasportare il vino con navicelle in città, se la città fosse stata costruita vicino al mare? Logica deduzione sarebbe che il centro della città doveva essere posizionato nell’entroterra e raggiungibile navigando con barche lungo il corso del Sybaris/Coscile che sfociava direttamente nel bacino portuale.

Per tornare invece a Thurii, essa fu fondata, su indicazione dell’oracolo, nei pressi della Fons Thuria, che molti studiosi (Cavallari, Lenormant, Zanotti Bianco) ritengono debba essere identificata nella Fonte del Fico, a Favella della Corte. È dunque estremamente significativo il fatto che ritroviamo una serie di fonti d’acqua nelle vicinanze di importantissimi rinvenimenti archeologici riconducibili all’epoca di Sybaris (Serra Apollinara) e Thurii (Favella della Corte).

Mentre nell’attuale Parco Archeologico non vi sono mai stati sorgenti d’acqua, perché non vi erano le condizioni idrogeologiche per l’emergenza di sorgenti. E la presenza di sorgenti era una delle condizioni imprescindibili quando i Greci fondavano le loro città.

 
Quadro d’insieme dei rinvenimenti sullo schizzo a mano di F.S.Cavallari
 

Come si evince dalla mappa del Cavallari (che scoprì i Tumuli Sacri di Thurii a Favella della Corte e centinaia di reperti arcaici a Serra Apollinara), a supporto delle considerazioni di Guzzo sulla mancanza di necropoli, cinta murarie, ecc., Thurii dovrebbe trovarsi in quest’area, nelle adiacenze del Crati Vecchio, là dove si ritrovano la Necropoli, ubicata ad oriente della possibile ubicazione della città, confermata dal ritrovamento di decine e decine di tombe elleniche e dai Tumuli Sacri di Thurii, e tracce di Strutture Difensive, comprovate dal rinvenimento di resti di antiche mura in quell’area, oltre alle sorgenti d’acqua sopra citate, fondamentali durante l’edificazione di una città. Non può solo trattarsi di pura coincidenza, che tali rinvenimenti siano avvenuti nei pressi del Crati Vecchio, citato da Erodoto come luogo nei cui pressi fu edificata Thurii ed il Tempio alla Dea Athena-Crathia. Tutte le evidenze sopra citate sono ubicate a poche centinaia di metri le une dalle altre.

E se Thurii, fu costruita sul lembo meridionale di Sybaris e poco distante da essa, allora la più gloriosa polis della Magna Grecia non può che essere posizionata a settentrione di Thurii e nelle vicinanze di Cozzo Michelicchio, sede di migliaia di reperti arcaici risalenti a Sybaris.e delle sorgenti d’acqua di Serra Apollinara, luogo che molti studiosi e ricercatori ritengono la sede dell’Acropoli di Sybaris.

A tutto ciò si aggiunge il fatto che nei pressi della Fons Thouria/Fonte del Fico, nei mesi scorsi, siano state rinvenute oltre 40 metri di mura antiche, probabilmente la cinta muraria narrata da Diodoro il Siculo: “Trovarono non distante da Sibari una sorgente chiamata Turia che aveva un tubo di bronzo detto dagli indigeni “medimno” e, ritenendo che questa fosse la località indicata dal dio, vi costruirono una cinta di mura e vi fondarono una città che chiamarono Turi dal nome della fonte.”

In conclusione questo studio delinea un nuovo scenario dove andare a cercare Sybaris e Thurii, ricostruisce il Paesaggio Antico che i primi colonizzatori Greci si trovarono di fronte quando approdarono sulle coste joniche calabresi. Uno studio che ha trovato straordinarie parole di elogio da parte del prof. Emanuele Greco, uno dei più grandi studiosi di Sybaris, Thurii e della Magna Grecia, già professore ordinario di Archeologia classica nell’Università di Napoli «L’Orientale» e Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene. Inoltre questo lavoro di ricerca è già confortato da importanti ritrovamenti, a seguito di lavori di ingegneria idraulica nell’area della Piana di Sibari, già segnalati alla Sovrintendenza di Cosenza che immediatamente ha effettuato il dovuto sopralluogo sottolineando la ragguardevole importanza di tali rinvenimenti.

La complessa vicenda del paesaggio naturale sibarita, soprattutto delle sue trasformazioni nel tempo, è argomento di vitale importanza con cui da oltre un secolo si sono misurati molti ricercatori, sia geologi che archeologi autori di un susseguirsi di ipotesi, moto spesso niente altro che opinioni, tranne quelle rese possibili nel corso della stagione dei carotaggi eseguiti dal prof. Cotecchia agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, grazie ai quali furono recuperate informazioni rilevanti, anche se non determinanti per lo scopo della ricerca, che era quello di permettere lo scavo archeologico isolando la falda freatica. Arriva ora lo studio di Nilo Domanico che ha un pregio sostanziale, perché si tratta, per la prima volta di uno studio accurato e scientificamente impeccabile, grazie alle quali lo studioso arriva con un alto grado di approssimazione a delineare una credibile storia del paesaggio idrogeologico della piana tra Coscile e Crati. Con questa evidenza devono fare i conti gli archeologi, non perché si debba procedere ad una meccanica combinazione tra fonti letterarie, archeologiche e geologiche, perché ogni livello di informazione deve essere utilizzato secondo le leggi che regolano quel dato settore, ma principalmente perché ora disponiamo di un’eccellente piattaforma nella quale calare l’evidenza archeologica, non solo, ma grazie alla quale la ricerca archeologica, può anche essere indirizzata grazie al lavoro svolto dall’ingegnere.” (Emanuele Greco)

Nei lunghi anni delle mie etnografie e ricerche nei luoghi abbandonati della Calabria, tra rovine di ogni epoca, anche recenti (terremoto del 1783; alluvioni del 1951 e degli anni Settanta) mi imbattevo, quotidianamente, in persone solitarie che compivano pellegrinaggi e cammini tra ruderi e rovine, in case e chiese abbandonate, andavano alla ricerca di un altro senso da quello presente, avevano nostalgia creativa di un mondo passato, spesso non vissuto, stabilivano un legame con defunti e divinità, mostravano una grande pietas, a volte piangevano, per un mondo magnifico o magnificato che non c’era più e non ci sarebbe più stato, avevano pena e passione per gente che era vissuta di stenti, di dolori, ma con dignità e anche con gioia. Questi “cercatori di rovine”, che mi sembrano angeli del mondo religioso antico, ma anche buddista e anche della nostra devozione popolari, sono tra le figure più interessanti della nostra terra, i mediatori tra alto e basso, sotto e sopra, ieri e oggi, terra e cielo, e sembrano volere dare un senso a malattia, vecchiaia, memoria, vita e morte. Sono i “cercatori di rovine” che oggi vanno in controtendenza a un mondo fragile, incerto, senza telos, che dimentica, non sa progettare e immaginare il futuro. Ed ecco, dove mi piace, collocare Nilo Domanico: in una tradizione culturale alta e popolare che non vuole dimenticare, che vuole portare alla luce memorie e reliquie del passato, che sogna, non dorme, studia, cammina, inventa per fare emergere quei resti di un mondo sommerso che continua a interrogarci e a chiederci conto e a dirci che se il mondo sta avviandosi alla fine è perché vengono sempre meno questi costruttori di sogni, animatori di fantasie e di città nascoste da fare “rivivere”. Perché il tempo presente non può fare a meno della conoscenza, della pietas, della passione per quelli che sono stati prima di noi, per un passato, che se non può rivivere, può essere riscattato con le sue possibilità inespresse, i suoi saperi rimossi, i suoi insegnamenti, i suoi materiali e suoi simboli, che sono le vere risorse di un mondo non materialista, non economicista, non necrofilo. Nilo Domanico appartiene a quella tradizione culturale e a quei ricercatori che sentono i luoghi, che hanno il senso dei luoghi e che dai luoghi vengono chiamati per un legame antico, per un rapporto che si è stabilito nell’infanzia e consolidato dal tempo, anche se magari da quei luoghi si è andati via. Spesso proprio la memoria di chi è partito e ritorna con nuova consapevolezza, spesso chi ha un villaggio nella memoria sente che, comunque, quei luoghi hanno una loro vita, qualcosa da dirci, da volerci comunicare, qualcosa di cui non ci siamo accorti e che, forse, dobbiamo e vogliamo scoprire, portare alla luce, perché solo in quel modo la nostra “identità”, il nostro senso di appartenenza di sveleranno in tutta la loro pienezza, la loro profondità. Il passato, nonostante le rimozioni e le devastazioni del presente, ci dice Nilo, non può essere allontanato dall’oggi: non possiamo fuggire dalle nostre origini che ci inseguono; saremo sempre anche quello che un tempo siamo stati; quale che sia la pesantezza della condizione del tempo presente, noi restiamo figli e dei luoghi in cui siamo nati, in cui siamo cresciuti, da cui siamo magari fuggiti in altri luoghi che, comunque, con il corpo o con la mente, con il rimpianto e la nostalgia, continuano a essere dentro di noi.

Noi siamo il nostro corpo, la nostra famiglia, i nostri antenati, la nostra storia. Noi siamo illuogo in cui siamo nati e cresciuti. Siamo anche i luoghi abitati, conosciuti, vissuti, anche i luoghi sognati, i luoghi desiderati, persino i luoghi fuggiti, disprezzati, amati, odiati. Nascere significa necessariamente nascere in un luogo, essere e sentirsi consegnato ad una residenza, avere un’appartenenza. Si può abbandonare o lasciare il luogo di origine, ma non si fugge dal luogo. Quel luogo in qualche modo, anche quando rimosso, dimenticato, cancellato, ci insegue per tutta la vita. Il luogo di nascita è costitutivo di quella che, con un termine che spesso ingenera equivoci e a volte anche danni e drammi, chiamiamo identità del gruppo e dell’individuo. L’uomo delle società tradizionali era anche quello che erano stati i suoi genitori, i suoi nonni, gli antenati. Apparteneva ad un luogo ben definito, alle divinità, alle persone, ai defunti di quel luogo. Ancora oggi coloro che vivono nei paesi, restano individui con il senso della verticalità più che dell’orizzontalità. Sono figli del tale, di quell’uomo che ha avuto quella storia, assomigliano o non assomigliamo ai genitori, ne prendono o non ne prendono dagli antenati. Sono destinati dalla nascita ad un’appartenenza familiare, in passato anche sociale e culturale.  Le persone nate e cresciute nello stesso luogo hanno una comune appartenenza e un sentire comune che li contraddistingue, agli occhi degli abitanti del luogo, ma anche dei forestieri, degli abitanti dei paesi vicini.  Vi sono, dunque, sensazioni, emozioni, linguaggi, parole, gesti comuni alle persone del luogo. Esse si riconoscono una comune appartenenza e identità anche fuori dai luoghi di origine. Si sentono uniti da storie, legami, tradizioni. C’è qualcosa di magico, ma in realtà di storico, di una magia che viene elaborata nella storia – la lingua, i gesti, i portamenti, le tradizioni – che a volte rendono simili anche dal punto di vista fisico, della fisionomica, del modo di muoversi gli abitanti dello stesso paese. Noi ci assomigliamo perché assomigliamo ai luoghi, e assomigliamo ai luoghi perché i luoghi sono una nostra costruzione. Nel luogo di nascita e di appartenenza l’individuo apprende la cultura dei padri, conosce il proprio corpo in relazione allo spazio esterno, riceve le sensazioni ed emozioni che l’accompagnano per tutta la vita, magari le emozioni che riappaiono nella vecchiaia, alla fine della vita, sul letto di morte. L’uomo delle società tradizionali si sentiva parte di vicende che l’avevano preceduto e in qualche modo pensa che continuerà ad essere presente nei luoghi anche dopo la sua morte.

Il culto dei defunti, la credenza, potrei dire la certezza, che essi continuano ad essere presenti nei luoghi, ad osservarci, a proteggerci, a consigliarci sono tratti costitutivi degli uomini di questa parte di mondo. Le nostre visite al cimitero, il nostro modo di vivere e di rivivere le feste, la nostra commozione al passaggio della statua del Santo, del Crocefisso, della Madonna, il nostro senso di gioia e di tristezza al momento del pasto festivo, cosa raccontano se non questa nostalgia di coloro che sono stati e non ci sono più? Cosa raccontano se non la speranza, la certezza, la sensazione che essi continuino ad essere qui con noi? Non si spiegherebbero la forza e la solidità delle feste del passato se non in relazione al senso del luogo, al nostro senso di appartenenza, all’educazione appresa da bambini, alla convinzione che i defunti continuino a vivere e anche a quella che noi una volta che non ci saremo più continueremo ad abitare questi luoghi. Noi, diceva Joseph Roth, che di erranza e di fine di mondi si intendeva, continuiamo (la ripetizione del verbo continuare è voluta) ad appartenere ai luoghi dove sono sepolti i nostri genitori. Ammettiamolo, il “cercatore di rovine” e di mondi sotterranei, in fondo cerca le proprie origini, la vita che lo ha preceduto, i propri defunti. Egli compie, prima che un viaggio fuori di sé, uno scavo nella sua anima. E, come Nilo Domanico, mi sembra di averlo capito quando al nostro primo incontro mi parlò della sua ricerca, è che i luoghi possono anche morire e scomparire per sempre. Contro questo rischio, anche quando parliamo di “anima dei luoghi” e di sentimento dei luoghi, occorre ribadire la “storicità” dei luoghi, la loro “mobilità” anche in rapporto alla nostra mobilità. Uscire da una sorta di metafisica del luogo per coglierne l’affettività e i legami complessi, controversi, mutevoli che con esso si stabiliscono. Il luogo non può essere assolutizzato: va considerato nelle sue determinazioni storiche e temporali. La nozione socio-antropologica di luogo è stata associata (a partire da Marcel Mauss fino a Marc Augé) e dalla tradizione etnologica a culture ben localizzate nel tempo e nello spazio, ma come non sono esistiti mondi armonici e pacificati, così non sono esistiti luoghi completamente isolati e chiusi. Il luogo antropologico è infatti di «scala variabile» nelle diverse società. Per quanto delimitabile, conoscibile, noto il luogo antropologico non è mai, neanche nelle società primitive e tradizionali, chiuso. Non esiste luogo antropologico se non in relazione a spazi esterni, vissuti come pericolosi e minacciosi, a territori popolati da spiriti, defunti, altri gruppi umani ostili o simili agli animali. Si può dire che ogni luogo riceve un senso da un «altro luogo» sconosciuto, ostile, pericoloso. Il luogo non è facilmente rinchiudibile in uno spazio. Il luogo è mentale: richiede anche un’organizzazione simbolica (la letteratura sull’argomento è molto vasta). Il luogo è tale soltanto perché vi sono delle persone, degli individui che lo considerano il loro luogo, perché delle persone o dei gruppi lo abitano, lo popolano, lo vivono, lo modificano interagendo con esso. Il luogo è anche le immagini di esso ereditate. Il luogo è ciò che di esso hanno fatto le persone che lo hanno abitato e che lo abitano, quelle partite e quelle che arrivano. Il luogo ha una storia. Il luogo ha un senso, ci sente, ci avverte. Ci condiziona, talvolta ci possiede. Cambia anche la nostra relazione, la nostra percezione del luogo. Il luogo ha a che fare con lo spazio, è qualcosa di individuabile, definibile, spesse volte circoscrivibile, dal punto di vista geografico, ma non è riducibile allo spazio. Il luogo dell’uomo ha a che fare con il tempo, con la memoria, con i ricordi, con l’oblio. Il luogo è una costruzione dell’uomo. Il luogo è un’invenzione antropologica. Il luogo antropologico è abitato, umanizzato, riconosciuto, periodicamente rifondato (si pensi alle nostre feste e ai nostri riti) dalle persone che di quel luogo fanno o si sentono parte. Questo sentirsi parte di un luogo ha certamente spinto Nilo a cercare una città sommersa, storica e mitica, che il tempo potrebbe cancellare per sempre. C’è un invito di Nilo a non perdere altro tempo, a fare in fretta, ad agire, anche con ipotesi che vanno verificate. Un’intuizione felice di Nilo è certamente quella di partire dal sopraterra, da ciò che resta, dal paesaggio e il paesaggio non è soltanto ciò che appare e si vede, ma anche ciò che non si vede, si intuisce attraverso immaginazione, ma anche segni e tracce che sono parte costitutivo di esso.

Racconti, storie, memorie, credenze e leggende arcaiche, diffuse in tutta l’area del Mediterraneo, ci ricorda Nilo, raccontano di tesori nascosti, di discese sottoterra, di divinità infere, di creature mostruose e di defunti inquieti. E si potrebbero segnalare analogie col mito di Persefone, che proprio da queste parti sarebbe stata rapita. Siamo in presenza di tanti probabili elementi stratificati di miti di rinascita e di rigenerazione, che risalgono all’antichità e che vengono rinverditi in epoca medievale grazie alla diffusione di fairy tales e di cicli leggendari arrivati sia dall’area nordeuropea che dal mondo arabo. Basti qui ricordare la geografia fantastica e leggendaria di luoghi dove albergano personaggi, figure che giungono da un passato lontano e che incontrano persone del presente, segnalando un sovrapporsi di storie, memorie ed eventi che concorrono a caratterizzare la mentalità popolare.  I luoghi abbandonati, i ruderi, le rovine, i palazzi e i castelli, le grotte che segnano il territorio, continuano ad essere popolati, anche dopo l’abbandono, ad essere custoditi, in qualche modo protetti. Sono luogo di ritorno e di apparizione dei defunti. Come se queste storie volessero in realtà proteggere e custodire i ruderi. Tutto questo attesta che i luoghi abbandonati non vengono mai cancellati dalla percezione delle persone: essi fanno parte della loro geografia reale e leggendaria, storica e mitica. E quanti di noi bambini non abbiamo creduto che sotto le nostre abitazioni e le rughe esistessero passaggi segreti che ci portavano al Castello, alle grotte, in palazzi, in altre parti del paese e, a volte, nei luoghi in cui erano emigrati e vivevano i nostri padri.

In questo orizzonte storico, mitico, leggendario, paesaggistico (visibile e invisibile di Sybaris e Thurii ), in un’area di fiumi, pietre, rovine minute, case abbandonate si inserisce lo studio di Nilo, alla ricerca della magnogrca “Atlantide perduta). Lo fa con l’ossessione e la passione del cercatore di arche perdute, del custode e dello scopritore delle rovine, ma lo fa, da ingegnere e scienziato moderno, con una profonda conoscenza della letteratura classica e dei miti e delle leggende su Sibari, con un approccio olistico e multidisciplinare, metodico e dettagliato, che ha messo in interconnessione differenti discipline, in apparenza non attinenti tra di loro, ma che invece sono fondamentali per giungere alla soluzione delle millenarie fondate supposizioni, di un enigma e di una nostalgia insopprimibili.

E lo ha fatto ponendosi numerose domande alle quali ha cercato di fornire una risposta plausibile e concreta, verosimile, basata su studi e ricerche, ceto visionarie, ma basate su solide realtà metodologiche e scientifiche, per cercare di ricostruire il paesaggio antico, a partire da quello attuale.  Ed è forse il primo passo, il punto di partenza, verso il ritrovamento di Sybaris e Thurii.  Copiae, già venuta alla luce, è uno dei tanti indizi che Nilo e gli altri studiosi sono sulla buona strada. Si domanda Nilo in maniera opportuna, con una metodologia supportata dalle nuove possibilità tecniche: «»

«In cosa si imbatterono i primi coloni Greci Quando arrivarono sulle coste joniche? Come era configurato il Paesaggio Antico? Ormai è storia nota che Sybaris fu fondata tra il Crati ed il Coscile. Ma quale era l’alveo dei due fiumi a quei tempi? Sfociavano al mare ognuno seguendo il proprio corso oppure erano uniti come ai giorni nostri? La linea di costa era quella attuale? Si narra che sulla costa vi fosse un’area paludosa e lagunare. Ma tali lagune e paludi dove erano allocate rispetto al Paesaggio Attuale? 

La più grande e gloriosa polis della Magna Grecia si inabissò poi nelle viscere della Terra, così come avvenne per Atlantide, per punizione divina o forse per le ciclopiche forze scatenate da un fenomeno geologico che la fece sprofondare?».

Sono domande affascinanti, necessarie, a cui spero si riesca a rispondere. Non per boria etnocentrica, anzi per superare la nostra incapacità di occidentali di costruire continuità tra passato e presente, tra ciò che siamo stati e ciò che siamo. Riportare alla luce Sibari significa tornare a guardare verso il Cielo, magari a vedere sulla Terra le immagini del Cielo, riconoscere le nostre ombre e prendere anche atto delle devastazioni che abbiamo compiuto. Nessun’ altra civiltà (lo ricorda Settis) come quella occidentale ha avuto il senso e la consapevolezza delle rovine, la capacità di valorizzarle, tutelarle, decifrarle. Allo stesso tempo nessuna civiltà come la nostra ha avuto la capacità di determinarle e anche di distruggerle. Il senso occidentale delle rovine, molte volte, si è tradotto nell’indifferenza per la civiltà degli altri e anche in violenta distruzione di meravigliose città e incantevoli costruzioni presenti in varie parti del mondo (Oriente, Medio Oriente, Americhe) che non potranno più essere rivenute, conosciute, perché sono diventate macerie tra le macerie della “natura” e della storia. Ritrovare Sibari – e per questo seguo con premura ed emozione le suggestive e appassionate ricerche di Nilo Domanico – significa realizzare un sogno antico della nostra terra, affermare cura e amore per i nostri luoghi, certo andare in direzione contraria alla perdita di sacralità e di identità che ci affliggono, immaginare altre vie per contrastare il vuoto e lo spopolamento dei nostri luoghi, forse, creare possibilità per tanti giovani di restare in uno dei luoghi culturali e paesaggistici più belli e più antichi del mondo. Ma ritrovare Sibari significa guardare in altro modo, ri-guardare con altra cura, la Terra e il Cielo, affermare un’idea altra e non antropocentrica del paesaggio e dei luoghi, scavare sempre nella nostra interiorità, riscattare un passato che forse continua ad essere presente, restituire a tutti gli abitanti del pianeta, in un luogo-tempo diverso dal loro, quanto siamo stati capaci di cancellare della loro storia e delle loro culture. In fondo Sibari e la Calabria sono una metafora della disperazione e delle speranze di tutto il mondo. Una pedagogia e un’etica delle rovine sono indispensabili per potere, almeno, immaginare, il futuro. Per queste ragioni, credo che le ricerche di Nilo Domanico riguardino tutti noi, come calabresi e come Sapiens.  (Vito Teti)

Sybaris e  il ritorno sotterraneo della Storia

La legittimità e la rilevanza di un libro si misurano dall’interesse del suo argomento, dal rigore del suo sviluppo, dalla fecondità dei suoi risultati.

Nelle pagine che seguono Nilo Domanico, ingegnere dal curriculum importante, direttore dei lavori della costruzione del Giardino Botanico dell’Oman, autore del Masterplan per la bonifica idraulica dell’area del Parco Archeologico di Sibari, ci consegna il resoconto appassionato di una ricerca, di una domanda che,  a poco a poco, nel confronto con i dati geografici e archeologici, prende forma e consistenza.

La questione davanti a cui ci pone non é cosa siano Sybaris o Thurii, cosa abbiano rappresentato, ma dove si trovino. Alla ricerca di Sybaris e Thurii nasce dunque dalla necessità di porre di nuovo, di ripetere questa domanda. Certamente, questa interrogazione vuole avere uno statuto razionale, fondato su elementi razionali. Per questo motivo il libro si volge verso dati paesaggistici, storici, archeologici, e rimette al confronto con essi la sua validità.

Già questo punto di partenza costituisce un elemento di grande interesse: la riproposizione di un discorso sul sito di Sibari é una opzione culturalmente significativa, perché riporta l’attenzione su una ricerca decisiva per la storia di un territorio e della Magna Grecia, non definitivamente risolta e per lo più scomparsa dai discorsi degli ultimi anni.

Tuttavia, per comprendere la dinamica fondamentale che anima il libro, é necessario volgersi a un livello più sotterraneo, interrogando la domanda stessa che lo attraversa e il modo in cui arriva a imporsi. Da dove essa sorge? Perché un non-archeologo sente la necessità, arriva a percepire come importante il discorso attorno a Sibari, al punto di farne un oggetto di ricerca?

Nell’atto di interrogarsi sul sito di Sibari e Thurii, vi é, inevitabilmente, una riappropriazione, un ritorno -razionale, e dunque non semplicemente su un piano individuale- nel cuore della storia di un territorio e dei suoi snodi decisivi. All’origine e come retroterra di questa domanda vi è, perciò, nell’autore, la coscienza della rilevanza della storia e della sua capacità di dare profondità al presente.

Una delle chiavi fondamentali del libro é da ritrovare proprio nel fatto che l’urgenza della storia sia presente e si proietti nel testo come l’urgenza di un’analisi, in vista della definizione di un luogo; lungo le pagine essa prende la forma di un’indeterminazione che incombe, un altrove rispetto alla unidimensionalità del presente che spinge alla ricerca, una possibilità forse decisiva che progressivamente si fa strada, e, proprio per questo, diventa concentrazione verso il reale, passione per esso, desiderio di capire.

L’autore non tematizza la natura di questa esigenza del suo sguardo, non si dilunga in considerazioni sulla necessità di trovare Sibari o di ritornare alla Grecia, ma l’urgenza con cui la domanda su Sibari si impone al suo animo determina anche lo stile del libro. Esso si fonda su un argomentare di “lotta”, orientato alla prassi, a ricostruire in maniera esatta, ma al fine di capire dove cercare; il suo sottrarsi, per brevità, alle forme di un saggio accademico non é che l’attestazione della natura del testo, dettato dalla prassi e dalla sua logica.

La dinamica dei capitoli del libro, in questo solco, si manifesta come un disvelamento progressivo di una insoddisfazione di fronte alla tesi della coincidenza nel sito dell’attuale Parco di Sibari delle tre città di Copia, di Thurii, di Sibari, a cui si accompagna l’emergenza di un’ipotesi di collocazione diversa di Sibari e Thurii. In un primo tempo, viene messo in scena un sapere tecnico, dell’acqua, dei suoi alvei, che si apre e viene progressivamente integrato in una dimensione teorica. Il libro cerca di ricostruire, attraverso uno studio del territorio e dei cambiamenti del corso del Crati, delle possibili variazioni del paesaggio che potrebbero essere rilevanti, se incrociate con dei dati storici. Lo scarto tra il dettaglio “ingegneristico” dell’analisi idrogeologica, maturata probabilmente attraverso lo studio per il Masterplan di Sibari, e il suo reinquadramento nel contesto “umanistico” di ricerca di Sibari, il rapporto tra un approccio specialistico e uno sguardo potentemente sintetico, costituisce uno degli elementi di più forte fascino del libro.

Il discorso si approfondisce poi attraverso delle indicazioni spaziali date da alcune fonti storiche, secondo l’autore non sufficientemente prese in considerazione: Erodoto, Diodoro Siculo, Strabone. La valutazione del legame della nascente città di Thurii con la fonte Thuria conduce il discorso su un altro piano: il tentativo di capire cosa pensarono i Greci quando arrivarono sulle coste del Sud Italia, quale logica li guidò nella scelta del sito di Sibari e poi di Thurii, diventa la chiave per reinquadrare il dato geografico.  Assunte le analisi del primo capitolo, aperta la strada a un’altra ipotesi attraverso gli elementi emersi dalle fonti storiche, una conoscenza precisa del territorio attuale, e una forte capacità di orientamento nello spazio della Sibaritide, permettono all’autore di formulare compiutamente una ipotesi alternativa riguardante Thurii e, di conseguenza, su Sibari.

Lo sguardo sulla questione si allarga ulteriormente, e alla riflessione sui cambiamenti del corso del Crati, sulla fonte Thuria, si aggiunge la constatazione delle debolezze, dei vuoti della tesi della coincidenza dei tre siti, delle sue incongruenze attorno alla questione dell’acqua, nonché, poi, la riconsiderazione delle ricerche di Cavallari, delle riflessioni sulle tombe trovate a Favella della Corte -che, se fossero davvero, come sembra, le tracce di una necropoli, dovrebbero essere situate necessariamente in prossimità di Thurii-, e dei ritrovamenti di Cozzo Michelicchio.

 Nel libro si dispiega così una riflessione in più direzioni e il desiderio di costruire una interpretazione articolata, il cui risultato é la formulazione di ipotesi molto precise sulla reale collocazione spaziale di Thurii e di Sibari.

Il gesto culturale di cui il testo é portatore é dunque un coraggioso guanto di sfida ben lanciato agli studiosi e al lettore; raccoglierlo può significare solo andare a verificare nel merito e dunque, verosimilmente, sul campo, le suggestive intuizioni di Domanico.

Di certo, come il libro mostra, la questione del sito non é chiusa; ma questo significa che un gigantesco mutamento di orizzonte, in rapporto alle conoscenze attuali, potrebbe essere disponibile.  Il merito e l’importanza del libro consistono, attraverso le sue ricerche, nel situarci con forza lungo questa faglia, decisiva non solo per la Calabria, ma anche per l’Europa. Nel riproporre una ricerca su Sibari, esso pone inevitabilmente il lettore davanti alla necessità culturale, storica, politica di ridare importanza alle ricerche sulla Magna Grecia, e specificamente su  Sibari.

Già in altri momenti della Storia, l’emergere del passato é stato preliminare a dei grandi cambiamenti di epoca. Quasi tutto il Novecento ha vissuto il rapporto alla Grecia, seppur con accenti diversi, come il rapporto a un altrove possibile, da cui la civiltà occidentale avrebbe potuto forse ricostruire se stessa.

In un momento storico in cui il cogito moderno ha tramutato la sua luce in una sorta di oscurità, ha condotto l’Occidente in un’epoca in cui, proprio in nome del soggettivismo, lo stesso soggetto é inghiottito da potenze più profonde e più terribili, il ritorno alla Grecia, non come altrove mitico, forse neanche come nuovo inizio, ma semplicemente come ritorno della Storia, potrebbe costituire una via d’uscita all’impasse.

Friedrich Hölderlin, nella celebre prima lettera a Casimir Böhlendorf del 4 dicembre 1801, sottolinea la necessità di un atteggiamento maturo verso la Grecia.  Rinunciando a una ingenua ispirazione diretta, a voler imitare i Greci, a pensare di esserne gli eredi, il rapporto con essi può costituire un elemento di ricchezza per l’Occidente, perché, la constatazione della differenza dei punti di partenza, consente ad esso di prendere coscienza delle proprie tendenze culturali, della loro contingenza, della finitezza del suo assoluto. L’alterità della Grecia costituisce per l’Occidente, paradossalmente, proprio in forza della differenza dei due orizzonti, un’occasione imperdibile per superare la sua tendenza culturale, per tornare, con un’altra consapevolezza, a ciò che gli é proprio,   per tornare -parafrasando Hölderlin- ad abitare poeticamente sulla terra.

La riflessione su Sibari condotta in queste pagine é forse, seguendo le vie sotterranee dello spirito, un fatto culturale, sorprendente e rilevante, che va in questa direzione. (Enzo Piro)

Emanuele Greco, Enzo Piro, Vito Teti

Data:

7 Dicembre 2024