Parlare della malattia non è cosa semplice, per me, specie per chi la vive e la ri – vive in altri.
Non lo è per chi ne è affetto e l’affronta con lo stigma della fragilità, quella da cui bisogna rifuggìre, scongiurando che non sia la propria persona, lo sfortunato malcapitato ad esserne inflitto.
La malattia profonde incertezza, vortice del dolore fisico e psichico, dando un senso di isolamento e di abbandono a sé stesso e agli altri.
Ci si vede come segnati alla compassione, alla alterità sia come spregio che come pietas, che irrompe nell’io, generando una dicotomica percezione spazio – temporale, del prima e del dopo come entità ontologiche recise, spezzate, seppur collegate dai vasi comunicanti del pensiero.
Come ero io prima… come sono adesso…
Un io spezzato e destabilizzato da parametri esistenziali entro i quali si agisce e inter – agisce, in forme diverse.
Man mano che la malattia si innesta in un processo cronico, la percezione dello stato di salute si liquefà e si entra nella dimensione ineludibile del galleggiamento e l’affiorare di una condizione di afflizione e deflagrazione psico corporale.
È questo ingrigisce, inaridendo la vita, la rende vana e greve e con un profondo senso di impotenza, fitta di necessità inalienabili, forzatamente delegabili a terzi. L’autonomia e la volontà cedono il posto alla disposizione altrui. Disposizione che condiziona l’assetto economico e il bilancio familiare.
Come dire, al sano mancano molte cose, al malato una sola: la volontà di azione, per le minuzie come le grandi cose.
La mia malattia ha influito e acuito il conflitto tra personalità e anima.
Ma se è una lotta impari le condizioni possono essere due: la cessazione finale, o vivere in un corpo e non avere mai la possibilità di dimenticarsene. Subentra il chiodo fisso dell’impedimento.
Quel pensiero, che come diceva Emil Cioran, “puzza di carne e sangue” e crea uno squilibrio vitale, che è proprio l’essenza della malattia.
Essa e il pensiero non hanno nulla a che vedere con la libera scelta. Si può scegliere quando si è baciati dalla giusta Sorte e dalla Grazia, (non so se fisica o metafisica) ma quando si affonda, non si può decidere né scegliere.
Ed è proprio la negazione della scelta che genera il dubbio e atti privi di fede e imbevuti di stolido scetticismo.
È paradossale dirlo, ma necessario, quanto sbagliato sarebbe legittimare la scelta del nascere.
Il nascere non subodora una scelta del futuro nascituro, ma diventa un atto generativo dettato da una esigenza egoistica ed istintuale tra due persone di genere diverso. Non sempre sublimato da un atto d’amore.
Ed è proprio nel momento del naufragio patologico, che diviene sempre più pervasivo il pensiero della non – scelta alla vita.
Se i genitori pensassero che un atto di amore o di sesso si possa trasformare in atto di forza predatorio, ci penserebbero più di una volta.
L’Inettitudine e la malattia determinano il rifiuto della realtà e della volontà a vivere, così come postulava Schopenauer e quegli autori a lui vicini, come Thomas Mann, Franz Kafka, o lo stesso Robert Musil. Penso anche alla inettitudine di Zeno di sveviana memoria.
Sulla scorta di questo malessere, mi segue un comportamento adattivo e un processo biologico di tipo reattivo, quello cui ci si sforza di mettere in atto per la sopravvivenza. Ma non sempre ci si riesce.
Trovo difficile definire il termine dolore proprio per il suo poliedrico significato. È appunto un termine ambiguo, poiché si presta a designare il dolore fisico che il dolore morale, come sofferenza per una perdita o la malattia di una persona cara, (piove sempre sul bagnato) occorsami proprio in questo momento. Lo scenario di un Abyssus abyssum invocat.
Se poi i fattori si uniscono si passa alla fase predittiva della decadenza distruttiva.
Tuttavia la malattia ed il dolore sono eventi naturali, come inscritto nel disegno naturale è la morte. Nonostante tale consapevolezza, non lo accetto, almeno io, come fatto naturale, perché nega la vita stessa e ne è l’antitesi.
Quindi il dolore come testimonianza dell’esistenza diviene spunto e coinvolgimento di una riflessione filosofica.
Penso a Nietzsche che soffrendo di emicrania ha posto il dolore al centro della sua esistenza, essendo un aspetto inscindibile.
Mi sento sbilanciato tra il mito di Dioniso e la vicenda di Gesù Cristo.
Entrambi hanno provato il dolore ma in modo diverso.
L’ho esorcizzato, fuggendo dalla vita stessa in uno spazio astorico e atemporale, dimenandomi tra álgos e pathos
E adesso che sono arrivati entrambi non resta che aspettare il Tanato.
Almeno che Gesù Cristo, quello di Nietzsche, strizzi l’occhio con la Grazia e il cambio di Sorte.
Non è segno di salute mentale soffermarsi su certe questioni poste in essere, ma esse riflettono e si adattano ad una società profondamente malata.
Immagine di copertina: Things I wanted to tell you — Mark and Aliza Ainis at The Dead Sea” di Ofer Katz, ispirato da Aliza Ainis
Salvo Germano
Salvo caro, nell’abisso della non-scelta tu hai scelto di testimoniare. Che non è un sofisma, è esattamente ciò che fai. La testimonianza è tragica per quanto è impervia l’esperienza. Ma è un atto. Nel desiderio di Thanatos tu agisci e vivi, poiché metti all’opera quanto è in te. Che non è certo poco. E così, paradossalmente ma non troppo, in te la vita e l’umana complessità e ricchezza si riprendono le loro ragioni. Parlane, di Thanatos, ma non cederle. La tua testimonianza è inquietante e preziosa.