Sentenza emanata: un tribunale appartenente alla giunta birmana ha condannato, Aung San Suu Kyi a cinque anni di reclusione con l’accusa di corruzione. Questa sentenza, in realtà, fa parte di una corposa serie di ben undici procedimenti penali che pendono sulla testa dell’ex leader. Il lustro da scontare, quindi, potrebbe allungarsi in maniera decisamente non indifferente. Questo perché ciascuna accusa comporta una condanna potenziale ad un massimo di quindici anni di reclusione. L’ultimo capo per la premio Nobel è l’aver accettato una tangente di 600mila dollari in contanti e lingotti d’oro da parte dell’ex governatore della regione di Yangon. Suu Kyi, ovviamente, nega tutto, ma non è ancora chiaro se la pena dovrà essere scontata effettivamente in prigione o potrà cavarsela con gli arresti domiciliari – come, a dirla tutta, le è già capitato in passato prima del fugace intermezzo democratico nel Myanmar.
L’ex leader birmana, arrestata il primo febbraio dell’anno passato – poco prima del golpe militare che cambiò lo status quo del suo Paese –, è stata già condannata tre mesi fa a sei anni di carcere: fu ritenuta colpevole di cinque imputazioni, tra le quali spiccano il possesso di walkie talkie e soprattutto la violazione delle norme anti-Covid. Per quanto riguarda i walkie talkie, fanno scalpore perché sono una rottura delle restrizioni alle importazioni (avvenute illegalmente per i comunicatori a distanza) e della legge sulle telecomunicazioni (per l’uso degli strumenti senza licenza). Trenta giorni prima a Suu Kyi era stato imposto di scontare altri quattro anni, due per sedizione e due ancora per la violazione delle restrizioni anti-Coronavirus. A partire dal colpo di stato del 2021, l’esercito birmano ha praticamente imposto una dittatura di stampo militare: moltissime libertà sono state limitate ed è stato preso il controllo del sistema giudiziario.
Come già accennato la condanna di ieri riguarda solo una parte del processo contro Aung San Suu Kyi: la corte deve ancora esprimersi ufficialmente riguardo gli altri reati di corruzione, frode elettorale e di violazione del segreto di stato. Facendo un veloce calcolo matematico e approssimandolo, la pena che l’ex leader birmana rischia di dover scontare potrebbe superare i cento anni di carcere: se non è un ergastolo, poco ci manca. “Rischia” perché non tutto potrebbe filare liscio: secondo attivisti e osservatori esterni, tra cui addirittura le Nazioni Unite, le accuse contro la Premio Nobel sarebbero ingiustificate e politicamente immotivate. Suu Kyi, dunque, non sarebbe la carnefice che si vuole far credere con tutto ciò che pende sulla sua testa… o forse sì? La morale della storia è che il ruolo tra vittime e carnefice è più sfumato di quanto possa apparire dall’esterno, e la linea di demarcazione tra giustizia e fallimento della stessa è tanto sottile quanto facile da oltrepassare, sia da una parte che dall’altra.