Sono considerati i più a rischio truffe ma anche coloro i quali, a differenza di altre generazioni, crede meno a ciò che circola sui social. Gli anziani in Italia, ovvero chi ha compiuto i 65 anni, ammontano secondo le ultime rilevazioni a circa 14 milioni di persone, una popolazione molto elevata che fa del nostro Paese la seconda nazione dopo il Giappone tra le più vecchie al mondo.
Se l’età media in Italia cresce a dismisura, è grazie alla qualità della vita, una delle cause principali di un rinnovato benessere tra le fasce più anziane della popolazione. L’uso dei dispostivi digitali sembra poi porsi come variabile importante nella gestione del tempo libero a disposizione (al netto delle incombenze derivate dal ruolo di nonni). Il rapporto tra le tecnologie e le persone di una certa età si è particolarmente incrementato numericamente in particolar modo nel corso della pandemia nel 2020, epoca in cui gli utenti con un’età superiore ai 50 anni ha avuto la crescita maggiore nell’impiego di app di messaggistica e social network. Permane certo un gap importante tra le giovani generazioni e le più anziane per ciò che riguarda l’uso della rete, una distanza da imputare in particolar modo alla mancanza di fiducia nella vita online e per la poca sicurezza riguardo i dati personali pubblicati.
Forse i giovani sono maggiormente sprovveduti e poco attenti alle trappole poste sul web? O forse perché gli anziani sono infarciti di una cultura chirografica e guthenberghiana atta a promuovere buone pratiche nel riconoscere una falsa informazione da una buona informazione? Propendo per la seconda, per il semplice motivo derivante dalla fondamentale esperienza maturata da persone nate in un periodo storico dominato da media a stampa ed elettrici in grado di fornire una partecipazione più matura degli individui al mondo dell’informazione. I boomer di oggi si dimostrano infatti in grado di gestire meglio il profluvio di notizie e setacciare ciò che più si avvicina al vero. I nonni-boomer di oggi si avvicinano con discrezione alla tecnologia imparando certo dai loro nipoti ma sono anche in grado di sperimentare da soli, apprendendo le necessarie skills per poter poi gestire in completa autonomia i device. Rispetto ai più giovani e smaliziati adolescenti sono però in grado di staccarsene, di accogliere nella loro dieta altri media a supporto del loro sapere, da un certo punto di vista sono meno schiavi e tecnodipendenti dei loro figli e nipoti.
La cultura digitale può essere una grande risorsa intra e intergenerazionale se solo si attiva e si costruisce assieme quella che Tim O’Reilly chiamò “architettura della partecipazione”, ovvero l’insieme di tutti gli atti di partecipazione che sfociano poi in una “cultura partecipativa” (Henry Jenkins). Il ruolo delle persone anziane può essere dunque decisivo nell’attribuire a tali gesti la giusta dose di altruismo, curiosità, rispetto e senso di gratitudine adatte a costituire e dare senso al concetto di community. «L’alfabeto digitale», ricorda Howard Rheingold, «richiede una gamma di competenze […], e prevede vari gradi di coinvolgimento». È proprio il concetto di coinvolgimento il punto fondamentale che può far sì che le strade, così diverse anagraficamente parlando di giovani e meno giovani, si possano incrociare affinché l’autorevolezza e l’esperienza del secolo scorso (veterani degli old media) possa sopperire alle mancanze del nuovo (esperti dei new media) in termini di competenza, conoscenza ed esperienza. E viceversa, perché, come ha detto Michel Serres, «quando i ragazzi usano il computer o il cellulare, richiedono il corpo di un conducente in tensione attiva, non quello di un passeggero in rilassata passività».