Indonesia: emergenza malaria fra i terremotati

Provate a immaginare un’isola rimasta deserta in quanto abitata da feroci draghi. No, non stiamo parlando di un luogo fittizio o di un romanzo fantasy, ma di Pulau Komodo, una piccola località di oltre 600 chilometri quadrati rimasta pressoché disabitata fino all’inizio del secolo scorso, per il semplice fatto che i marinai e i pescatori indonesiani avevano diffuso la voce secondo cui quel luogo sarebbe stato abitato da strane e letali creature. Per anni, queste storie rimasero circondate da una coltre di mistero, fino a quando, nel 1912, un coraggioso scienziato olandese di nome Peter Ouwens decise di recarsi sul posto; per quanto possa sembrare incredibile, una volta lì si rese conto che, in realtà, i pescatori del luogo non avevano poi tutti i torti. Sull’isola abitavano infatti delle lucertole carnivore lunghe tre metri e pesanti 70 chili, in grado in talune situazioni perfino di ergersi sulle zampe posteriori. Ouwens riuscì abilmente a catturare quattro esemplari, impresa grazie alla quale venne nominato ufficiale dell’Ordine di Orange-Nassau. Fatta chiarezza sulla natura dell’animale, nonché sul modo con cui gli uomini potevano convivere pacificamente con esso, il popolo indonesiano non fu più terrorizzato dall’idea di metter piede a Pulau: in questo modo, nel giro di pochi anni, migliaia di abitanti si trasferirono lì e vi presero dimora.
Fino a non pochi giorni fa, Pulau e le altre isole della Sonda non erano conosciute se non per l’imponenza del Monte Rindjani, le immense risaie e la curiosa lucertola, nel frattempo ribattezzata “drago di Komodo”. Malgrado l’inconsueto fascino del gigantesco animale abbia attratto un tale numero di turisti sull’arcipelago da costringere il governo locale ad approvare un’apposita legge per regolamentare il flusso dei visitatori, da alcuni giorni le isole della Sonda sono divenute note in tutto il mondo per una ragione diversa e, indubbiamente, ben più triste.
Nel mese di agosto, un devastante terremoto di magnitudo 6,9 ha provocato la perdita della vita di 347 indonesiani, centinaia di dispersi e, in ultimo, oltre 110.000 sfollati. Naturalmente, è inevitabile provare dolore e frustrazione per quanto accaduto; eppure, le disgrazie per queste povere persone potrebbero essere destinate a continuare e, se possibile, perfino ad assumere contorni grotteschi.
La mancanza di abitazioni, unita ovviamente alle numerose zone paludose presenti nelle regioni meridionali del Paese, stanno incrementando la diffusione della malaria con una velocità sorprendente. I dati ufficiali parlano di 137 contagi nel solo mese di settembre (fra cui una donna incinta e due neonati), circa il doppio rispetto allo stesso periodo del 2017. E il numero potrebbe essere destinato a salire ancora.
Nella giornata di ieri, il governatore della provincia di Lombo ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria, ma per le leggi nazionali, in termini concreti, questa decisione non ha alcun significato dal momento che, in teoria, la provincia di Lombo non dispone di un budget sufficiente per fronteggiare il problema. Negli ultimi giorni, tutto ciò che le autorità sono state in grado di fare per tutelare i propri cittadini è stato distribuire in maniera preventiva 10.000 zanzariere e svariate lozioni antizanzara agli abitanti delle province maggiormente vulnerabili al problema, una misura evidentemente del tutto insufficiente.
Ma l’aspetto più clamoroso di questa vicenda, è che per debellare questo problema potrebbero essere sufficienti appena 3,4 miliardi di rupie, pari a circa 196.000 euro, una cifra quantomai contenuta in relazione all’importanza della salute dei poveri sfollati.
Naturalmente, noi tutti confidiamo che a Giacarta il ministero della salute possa prendere la decisione giusta e non lesinare sulle risorse destinate a un tema così delicato. Malgrado la crescita economica che ha portato il Paese asiatico negli ultimi anni a divenire una delle nazioni più ricche del Pacifico centrale, le politiche degli ultimi anni hanno condotto a una sempre maggiore disuguaglianza sociale, e con essa a numerosi tagli al welfare e di conseguenza alla sanità. Non v’è pertanto da stupirsi se un problema ai nostri occhi facilmente risolvibile come la malaria diventi per i poveri abitanti di Pulau, viceversa, un motivo di terrore. Non bisogna infatti credere che quest’ultima epidemia rappresenti l’unica emergenza sanitaria nell’arcipelago indonesiano: al contrario, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi la metà dei cittadini vivrebbero in regioni dove la malaria sarebbe endemica; una percentuale che arriva a raggiungere il 60% nelle zone di Bali e Java, rispettivamente prima e quinta isola del Paese. A tutto ciò bisogna poi aggiungere il fatto che nelle aree più piccole, storicamente fornite di una peggiore fornitura medica, le possibilità d’infezione al pari inevitabilmente del tasso di mortalità divengono significativamente più elevate.
È triste dover prendere atto del fatto che, nel XXI secolo, l’uomo è ancora costretto a convivere con malattie che, viceversa, con investimenti mirati e migliori misure igieniche potrebbero essere facilmente estirpate. Tuttavia, è altrettanto triste che gli sfollati, dopo essersi visti portar via da un violento terremoto i propri averi, le proprie case e, nelle situazioni più sfortunate, anche i propri cari, ora debbano convivere perfino con la malaria; e questo, in fin dei conti, è l’aspetto della questione che maggiormente infonde amarezza nei nostri cuori.
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