Cina: cinquanta ragazzi in carcere per essere… troppo marxisti

In carcere per le proprie idee politiche, in carcere per aver espresso in maniera pacifica e democratica la propria fede comunista: non vi sarebbe nulla di nuovo se non fosse per il fatto che tutto ciò è avvenuto… nella più grande nazione comunista al mondo.
“L’Università è il primo luogo in cui viene diffuso e studiato il marxismo in Cina. Essa ha offerto un grande contributo alla diffusione del marxismo e alla fondazione del Partito Comunista Cinese” aveva dichiarato cinque mesi fa Xi Jinping, incoraggiando tutti gli studenti del Paese ad approfondire e a promuovere la dottrina maoista anche al di fuori degli orari di studio. Curiosamente, qualche giorno fa un gruppo di studenti e di neolaureati sembra aver commesso il fatale errore di prendere un po’ troppo alla lettera le dichiarazioni del proprio presidente, organizzando un piccolo sindacato indipendente per tutelare le condizioni dei lavoratori nel sud della Cina. I ragazzi hanno peraltro introdotto nel proprio piccolo gruppo una serie di tradizioni ormai pressoché desuete, come il chiamarsi tra loro “bànlu” (“compagno” in cinese), salutarsi col pugno chiuso o cantare l’internazionale durante le proprie riunioni. Inutile dire che Pechino ha quasi immediatamente provveduto a ordinarne l’incarcerazione per un presunto disturbo della quiete pubblica; i ragazzi rischiano ora una pena esemplare.
Naturalmente, verrebbe spontaneo interrogarsi sulle ragioni di questa ambivalenza del regime cinese nei confronti di quella che (almeno ufficialmente) dovrebbe essere l’ideologia adottata e promossa dal governo. Per rispondere a questa domanda, bisogna risalire addirittura agli anni Venti, quando un giovane ragazzo del Sichuan subito dopo il diploma decise di viaggiare per il mondo. Si recò a Parigi, dove conobbe alcuni dei filosofi anarchici più conosciuti dell’epoca, ma, soprattutto, trascorse diverso tempo a Mosca e a Leningrado, dove soltanto qualche anno prima era stata compiuta quella che sarebbe passata alla storia come la rivoluzione russa. In quei giorni Deng Xiaoping, questo era il nome del ragazzo, si convinse che una società più giusta fosse possibile e decise che, una volta tornato in patria, si sarebbe battuto con tutte le proprie forze per la causa comunista. Negli anni a venire avrebbe partecipato alla Lunga Marcia e alla guerra civile cinese, schierandosi ovviamente in entrambe le situazioni con l’Armata rossa. Così, quando nel ‘49 le truppe di Chiank Kai-shek vennero definitivamente sconfitte (l’ultima battaglia tra l’atro ebbe luogo proprio nel “suo” Sichuan), Deng aveva ormai conquistato le grazie e le simpatie di Mao, il quale non esitò ad affidargli prestigiosi incarichi di governo.
In molti pensavano che Deng fosse destinato ad una lunga e luminosa carriera politica e che la sua amicizia con Mao lo avrebbe portato, alla morte di quest’ultimo, a prenderne il posto. Col tempo, tuttavia, accaddero numerosi eventi che in pochi avrebbero potuto prevedere. Il grande balzo in avanti, la politica sociale ed economica portata avanti dal regime, si rivelò un fallimento. Progressivamente, Deng iniziò a coltivare l’idea che la Cina non fosse adatta a realizzare in maniera rigida e fedele la dottrina socialista, ma che dovesse piuttosto sviluppare una sorta di alternativa in grado di unire il marxismo più ortodosso con la solidarietà e le innovazioni dell’epoca. Tali idee ottennero subito un grande seguito fra la popolazione, al punto che Mao iniziò a diventare geloso della sua popolarità e timoroso che Deng potesse addirittura provare a scalzarlo. Secondo molti storici, una delle reali ragioni - se non addirittura la ragione principale - per cui l’allora dittatore comunista decise di organizzare la rivoluzione culturale, fu proprio quella di indebolire la posizione di Deng facendogli perdere consensi e relegandolo a un ruolo del tutto minoritario all’interno del partito.
In tal caso, il suo obiettivo riuscì perfettamente: nei dieci anni successivi, il nostro protagonista divenne una figura del tutto marginale e per poco non finì nel dimenticatoio. La sua carriera sembrava finita quando il premier Zhou Enlai, malato di cancro, nei suoi ultimi mesi di vita decise di spendersi in prima persona per far sì che Deng potesse tornare al centro del partito, dichiarando esplicitamente che nessuno più competente di lui avrebbe potuto sostituirlo una volta passato a miglior vita.
Ancora una volta, Deng propose una linea politica in netta discontinuità con quella del comunismo tradizionale; una linea che sembrò trovare sempre più consensi man mano che il comunismo collezionava fallimenti in Unione Sovietica e nell’Est Europa. Nel 1978, Deng era di fatto l’uomo più potente della Cina, e, malgrado il suo mandato presidenziale sarebbe durato solamente fino all’87, il suo potere sarebbe rimasto indiscusso fino a quando non dovette abbandonare la politica a inizio Novanta a causa del morbo di Parkinson.
Durante i suoi anni al potere, Deng abolì il sistema delle classi; il che, tradotto in termini concreti, voleva dire restituire ai proprietari terrieri e agli imprenditori la possibilità di svolgere il proprio lavoro: la Cina si era definitivamente aperta al capitalismo.
Con gli anni, come sappiamo, il sistema economico della Repubblica popolare è cresciuto in maniera esponenziale.
Malgrado formalmente la Cina sia ancora una nazione comunista, essa deve il proprio benessere e la propria influenza internazionale proprio al fatto di aver ripudiato gli ideali marxisti. Un paradosso sul quale si basa l’intera nazione e che pertanto risulta ad oggi del tutto irrinunciabile.
Nel corso degli anni non sono mancate le proteste contro il governo, basti pensare agli eventi di Piazza Tienanmen della primavera dell’89 (repressa violentemente proprio da Deng). Eppure, l’arresto dei “giovani sindacalisti”, negli ultimi giorni, ha portato un senso di sbigottimento nel popolo cinese proprio perché la maggior parte di essi provenivano da una delle istituzioni maggiormente controllate dal governo di Pechino: le università. Malgrado le competenze della maggior parte dei professori cinesi, ad oggi le università non rappresentano realmente dei luoghi dove formare il proprio pensiero critico, bensì dei centri all’interno dei quali a ciascuno studente viene inculcato, prima di ogni altra cosa, il senso di obbedienza al regime. Com’è possibile, dunque, che dei neolaureati siano giunti ad una simile autonomia di pensiero? La risposta più ovvia è da ricercare nelle recenti tecnologie. Internet e i social network, infatti, permettono a chiunque di accedere ad una serie di informazioni non autorizzate dal governo, a formare il proprio intelletto nel segno dell’anticonformismo e dello scetticismo nei confronti della massa, e questo spesso genera dei nuovi ribelli. In altre parole, il governo sarà anche in grado di controllare le università, ma non è in grado di controllare le nuove tecnologie… almeno per il momento.
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