Il caffè pedagogico
A proposito di fair play, la deriva razzista dello sport

Recenti fatti di cronaca hanno riportato alla ribalta un aspetto spiacevole della tifoseria: il razzismo nello sport, usato per offendere la squadra avversaria.
Il campionato di calcio è stato spesso teatro di questi deplorevoli episodi, poiché in parte, i calciatori stranieri impegnati nel nostro paese sono di origine africana, ed è proprio il colore della pelle a causare reazioni di razzismo dettate dall’ignoranza vestita da tifo, ma che di tifoseria (nel senso più sano del termine), non ha nulla.
Durante lo scorso match di campionato tra Inter e Napoli, prima del quale si sono registrati scontri tra tifoserie opposte che hanno causato la morte di un tifoso interista, il calciatore azzurro Koulibaly è stato oggetto di squallidi cori razzisti.
Non è purtroppo un caso isolato, dal momento che in varie occasioni, dalla curva dei vari stadi, molteplici sono stati in passato gli insulti che si sono levati in direzione di calciatori di origine africana e sudamericana.
Si ricordi ad esempio la banana lanciata in campo durante l’incontro calcistico tra il Villareal ed il Barcellona. In quel caso, Dani Alves, il calciatore brasiliano oggetto dell’attacco palesemente razzista, sfidò l’idiozia dei tifosi, sbucciando e mangiando la banana come se nulla fosse accaduto.
Certamente si ricorderanno le polemiche scaturite dalla presenza di Myriam Sylla e Paola Egonu nella nazionale Italiana finalista ai mondiali di pallavolo. Anche in questo caso la discriminazione derivava dal fatto che le due giocatrici fossero nere, pur essendo italiane di nazionalità.
L’elenco sarebbe lunghissimo dal momento che ben sappiamo quanto scarso fair play si riscontri ai nostri giorni, specie nel calcio, e quanto frequenti siano gli episodi di razzismo e di violenza negli stadi.
A chi si stesse chiedendo il nesso tra una rubrica pedagogica e gli episodi appena citati, potremmo rispondere che il collegamento è strettissimo, dal momento che una sana educazione allo sport, a partire dalla famiglia, potrebbe scongiurare buona parte di questi fatti di cronaca spesso incresciosi.
Come? Con il buon esempio che vale più di mille insegnamenti. I genitori che, durante le partitelle dei propri figli, insultano ed inveiscono, non incarnano il comportamento corretto che dovrebbe essere adottato, in ogni circostanza sportiva e non, dai giovani che li osservano.
Un bell’esempio di “gioco corretto” è senz’altro quello praticato dai rugbisti, che nel terzo tempo condividono un momento di convivialità successivo al match spesso duro, ma mai caratterizzato da scorrettezza o altri comportamenti negativi.
L’esempio dunque è fondamentale ed è più efficace di qualsiasi divieto di accesso alle manifestazioni sportive, poiché educare al fair play vuol dire educare al rispetto dell’avversario, qualsiasi sia la sua provenienza, il colore della sua pelle o la sua fede calcistica.
Lascia un commento
NB: I commenti vengono approvati dalla redazione e in seguito pubblicati sul giornale, la tua email non verrà pubblicata.