Fine vita

Consenso informato e biotestamento

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cms_16666/apertura.jpgIl tema del fine vita e, soprattutto, della responsabilità che si assume chi esegue la volontà di chi decide di porre termine alle proprie sofferenze, da lungo tempo è dibattuto in modo inevitabilmente passionale, coinvolgendo questioni etiche e religiose su cui probabilmente non cesserà mai lo scambio di opinioni diverse e contrastanti. In ogni caso il dato certo è che in Italia solo con la legge n. 219/2017, quella sul c.d. consenso informato e biotestamento, si è regolamentata la materia. Ciò è avvenuto in modo parziale e lacunoso, con inevitabili contrasti insorti in seno ai vari organi giudicanti circa il ruolo dell’esecutore. Costui, infatti, si trovava stretto dalla combinazione di tali norme con quelle già esistenti in ambito penale in tema di omicidio, ma tale combinazione doveva trovare una sua “purificazione” alla luce del principio di autodeterminazione del malato, contenuto nell’art. 32 della Costituzione. Ecco perché la Corte Costituzionale, già con l’ordinanza n. 207 del 2018, aveva ammonito il legislatore per indurlo a definire con precisione l’istituto del suicidio medicalmente assistito, in modo da renderlo compatibile con detta previsione della Carta. Ciò che interessa rilevare e portare all’attenzione dei lettori, oltre al tema in sé, è la tecnica adottata dalla stessa Corte che, data l’inerzia del Parlamento, con la sentenza n. 242 del 2019, che alleghiamo, si è avvalsa del meccanismo della “doppia pronuncia”, di fatto sostituendosi a chi dovrebbe legiferare, sicché questa previsione è ora legge. Fatto positivo? Certo, ma che si debba arrivare a tanto riteniamo sia inquietante, poiché se chi dovrebbe fare il proprio dovere in base ai richiami di un organo così fondamentale se ne infischia, evidentemente c’è nel suo operato qualcosa di profondo che non va e rende opaco ciò che questo “chi” pone in essere in tutti gli ambiti in cui opera.

Nicola D’Agostino

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