IL CAMBIO DI PASSO DEL FAST FASHION
LA SFIDA POST CORONAVIRUS A COLPI DI MOUSE

Cinque mesi fa nessuna fashion addicted, nemmeno la sottoscritta, avrebbe mai pensato di poter fare a meno, per ben tre mesi, della cosa più divertente e terapeutica al mondo, fare shopping! Eppure nei mesi scorsi l’unica preoccupazione era andare a fare la spesa attraversando tristi scaffali di pasta o biscotti. Nei nostri pensieri non c’era più posto per un paio di scarpe o un bel vestito, anche lo shopping online aveva perso la sua attrattiva, ma non per tutti, anzi! Poi è arrivato il diciotto maggio, la fatidica fase due, ma siamo state in tante a continuare a vivere e pensare in mood fase uno, in fondo, un blazer nuovo non ci serviva, quella scintilla verso lo shopping addicted non si era ancora accesa. La paura, mista alla colpa di passeggiare solo per il gusto di assaporare i colori, l’aria, di guardare le vetrine dei negozi non ci aveva lasciate. Oggi che l’estate è sempre più vicina, la voglia di ritornare a sentirsi belle, felici e di indossare qualcosa di nuovo è ritornata e la fashion addicted che è in me è tornata più in forma che mai. Nei prossimi articoli si tornerà a parlare di fashion, tendenze e shopping, dopo questo periodo così buio si cerca di tornare alla leggerezza, alla normalità che nel caso del fast fashion potrebbe non tornare più, almeno a quella normalità che noi conoscevamo.
Dopo il fallimento della catena statunitense Forever 21, dopo il concreto rischio di bancarotta per Neiman, dopo la chiusura di tutti gli store di Monsoon Accessorize e Quiz in Inghilterra, dopo l’annuncio del colosso svedese del fast fashion H&M di voler chiudere otto negozi solo in Italia dovuto al grande calo degli acquisti nel mese di marzo, anche il brand Zara che fa parte del colosso Inditex che annovera tra i suoi brand Bershka, Stradivarius, Oysho,Pull &Bear, Massimo Dutti e che ha visto il suo primo rosso da quando è stato quotato in Borsa, ha annunciato che, causa coronavirus, chiuderà 1200 store. La profonda crisi del colosso svedese H&M arriva da lontano, ma il coronavirus ha dato il colpo di grazia, secondo i dati diffusi dal colosso del fast fashion il calo delle vendite è stato progressivo da gennaio a febbraio dell’otto per cento per arrivare al quarantasei per cento nel mese di marzo, ma contemporaneamente ha visto un’impennata del quarant’otto per cento in più verso lo shopping digitale. Ora arriva la notizia che anche Zara lascerà abbassate le serrande di 1200 store dislocati tra Asia ed Europa, per colpa del coronavirus c’è stata la chiusura forzata degli store e, anche per Zara, c’è stata un’impennata del cinquanta per cento in più verso lo shopping digitale. Il coronavirus ha solo accelerato quello che da tempo era nell’aria del fast fashion, l’idea di uno spostamento verso una dimensione digitale dello shopping ridimensionando quella fisica negli store.
Gli affitti stellari per essere presenti nelle vie più prestigiose dello shopping mondiale, la crisi dei centri commerciali, luoghi d’elezione per il fast fashion, il costo del personale addetto alle vendite e tutte le spese per la sanificazione dei locali stanno diventando un peso troppo pesante per il fast fashion e di cui, “grazie” al coronavirus, potrebbero liberarsi prima di quanto pensassero. Il periodo di lockdown ha portato tantissima gente a sperimentare, anche per la prima volta, lo shopping digitale e ad esserne pienamente soddisfatti. Secondo uno studio una percentuale molto alta di consumatori ripeterà senz’altro l’acquisto digitale preferendolo a quello fisico. Il gruppo Inditex ha annunciato che investirà un miliardo di euro per incrementare lo shopping digitale con l’intento, entro il 2022, di arrivare al venticinque per cento del fatturato derivante dallo shopping online. In questo cambio di passo gli store diventeranno sempre più centri di distribuzione, punti dove smaltire le scorte di magazzino e punti di ritiro degli acquisti fatti online. Dopo la grande espansione avvenuta nei primi anni 2000, oggi arriva la battuta d’arresto per il fast fashion per quanto riguarda il retail, il fashion system si era spaccato in due, da una parte i brand lussuosi con i loro prezzi inaccessibili per molti e dall’altra il fast fashion con i suoi grandi ed anonimi store e la sua velocità imbattibile nel sfornare trend e subito disponibili negli store. Negli ultimi anni il mantra dei fashionisti era diventato vestire cool, spendere poco, cambiare sempre mood, su questa scia si sono inseriti i colossi del fast fashion in grado di accontentare il continuo desiderio di novità dei consumatori, offrire loro i trend in tempo reale, avere capi cool, ma a prezzi democratici. Oggi il retail del fast fashion sembra vivere un periodo di crisi, i consumatori sembrano essere orientati verso uno shopping mirato, verso l’acquisto di capi di qualità slegati dalle tendenze del momento. Questa analisi sulla crisi del retail del fast fashion non vale per lo shopping digitale, anzi i colossi del fast fashion hanno raddoppiato le loro vendite online e questo ha portato a pensare a nuove strategie di vendita digitale. Si sta pensando a piattaforme digitali sempre più innovative dove offrire una nuova esperienza di shopping con camerini e personal shopper virtuali, outfit pensati in base alle esigenze del cliente che in quel momento è connesso. Il coronavirus ha solo accelerato un cambio di passo che tra gli addetti ai lavori circolava da tempo, paradossalmente il virus ha spinto molti consumatori ad abbattere le diffidenze verso lo shopping digitale. Soprattutto gli italiani che sono rimasti scottati da improbabili televendite e ciarlatani visti negli anni in TV, hanno scoperto di quanto fosse facile, comodo, veloce e sicuro fare acquisti digitali.
La sfida tra i colossi del fast fashion oggi sembra essersi spostata nella dimensione digitale perché il consumatore, secondo le ultime ricerche, nelle strade della sua città post pandemia non avrebbe più voglia di mass market, di mega store anonimi, ma nemmeno dei brand del lusso. Il consumatore oggi vorrebbe ritrovare boutique, addetti alle vendite qualificati, capi essenziali, senza una data di scadenza, dalle linee fluide, di qualità, durevoli nel tempo e preferibilmente in nuance neutre. Solo il tempo ci dirà davvero se nel 2030 negli Stati Uniti spariranno i centri commerciali, se la voglia di acquistare nei retail del fast fashion da parte del consumatore non ritornerà, se la dimensione digitale diventerà predominante rispetto a quella fisica, se il consumatore manterrà questo trend quasi “ascetico” verso il fashion. Solo il tempo ci dirà davvero se il fashion system, dopo il coronavirus, ha deciso di cambiare rotta oppure ha deciso di cambiare tutto perché nulla cambi.
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