CANCELLATI PIÙ DI 2500 CANALI YOUTUBE

Secondo Google diffondevano notizie false riguardo la Cina

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Disinformazione, disinformazione canaglia”. Parafrasare una delle più famosi canzoni di Al Bano rende ottimamente l’idea delle motivazioni dietro la cancellazione di ben 2596 canali YouTube. A seguito di una maxi indagine condotta tra aprile e giugno Google, proprietario della più famosa e longeva piattaforma di condivisione video, ha ordinato la chiusura definitiva dei profili cui accennato sopra. L’holding statunitense non è entrata nei dettagli dei video, ora non più disponibili; si sa solo che la Cina esercitava un’influenza non indifferente nel diffondere notizie non veritiere. Facile immaginare che l’oggetto fosse il coronavirus e tutto ciò che ne concerne, tra cui la gestione delle informazioni su di esso all’interno dello Stato asiatico e nel mondo. Il numero attuale, inoltre, è superiore di ben 277 unità rispetto a quello che indicava la chiusura di canali a gennaio, febbraio e marzo del 2020.

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Questi canali pubblicavano on line prevalentemente contenuti spam o non politici, ma un piccola sottocategoria si occupava di contenuti politici primariamente in cinese, tra cui anche alcuni relativi alla risposta degli Stati Uniti alla pandemia di CoViD-19”. Nel rapporto pubblicato da Google, oltre queste parole, si legge qualcos’altro che potrebbe destare interesse: questa indagine è collegata con un’altra condotta da Twitter e dal gruppo di analisi di social media Graphika, che ad aprile hanno preso in considerazione una serie di canali video e social appartenenti ad una campagna di propaganda coordinata dalla Cina. Profili YouTube, Facebook e Twitter attivati quest’anno.

È ormai risaputo che uno dei fulcri delle continue tensioni tra Pechino e Washington sono i mal celati sospetti sulla disinformazione condotta via web dalla Cina. Mike Pompeo, Segretario di Stato dell’America, ha infatti minacciato un giro di vite sulla applicazioni per computer e telefoni sviluppate da compagnie cinesi che hanno accesso ai dati dei cittadini statunitensi (esempio lampante è la vicenda che ha visto coinvolta Huawei), tra cui spicca il popolarissimo servizio di messaggistica WeChat. Pompeo ha anche ipotizzato l’applicazione di nuovi limiti alle operazioni di gruppi di cloud computing (ovvero di distribuzione di servizi da remoto) cinesi che operano sul suolo statunitense. Ma è un’altra app a tenere banco da quelle parti: Tik Tok.

A inizio mese il presidente Donald Trump aveva vietato l’uso di questa popolare applicazione, sviluppata dal gruppo cinese ByteDance e scaricata da quasi un miliardo di persone sul suolo americano. È infatti ancora sotto inchiesta da parte del CFIUS, l’agenzia incaricata di garantire che gli investimenti esteri non costituiscano un rischio per la sicurezza nazionale. Per questo, esattamente il 31 luglio, il New York Times aveva svelato che niente di meno che Microsoft (sì, proprio il gigante informatico) era in trattativa per acquistare Tik Tok, senza tuttavia aggiungere nulla sullo stato dei negoziati. Nel 2017 Musical.ly venne acquistata da ByteDance nel 2017 e rinominata Tik Tok. Che, ora, potrebbe tornare alla base, evitando la sorte della cancellazione come per i canali YouTube.

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Leggendo tra le righe, le intenzioni degli Stati Uniti possono essere ipoteticamente riassunte come un “per garantire la sicurezza dei concittadini ci facciamo carico di ciò che utilizzano maggiormente”. Quelle della Cina, invece, non sono da condannare: non conoscendo le vere intenzioni del Paese orientale è possibile affermare tutto e il contrario di tutto. Quando è in ballo la sicurezza e non si conosce il “nemico”, non prendere le parti di nessuno è la scelta più saggia da intraprendere.

Francesco Bulzis

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