LA CUCINA ROMANA DELLA TRADIZIONE
Maccheroni con la pajata

La pajata è la prima parte dell’intestino del vitello di latte. Viene svuotata e pulita accuratamente; si preferisce non togliere il chilo, che dà morbidezza e sapore alla carne. E’ stata sempre molto amata per il suo sapore intenso, rustico, deciso, che la ha fatto diventare uno dei piatti più apprezzati nei gusti delle famiglie popolari, sempre presente nei menu delle trattorie tipiche di cucina tradizionale. I rigatoni sono considerati oggigiorno il formato di pasta che meglio valorizza il suo sugo; in origine si accompagnava con i maccheroni romaneschi o con altri tipi di pasta meno rifiniti.
Può essere preparata in altri modi, forse meno conosciuti ma non meno saporiti: pajata arrosto, pajata in umido, patata al forno con le patate. Non c’è traccia invece nella cucina romana della pajata arraganata, fatta rosolare in padella con aglio olio e molto origano, piatto di tradizione meridionale che rappresentava uno dei pochi modi in cui la pajata veniva cucinata al di fuori dei confini laziali.
In cucina viene utilizza preferibilmente la pajata di vitello, più tenera e dal sapore meno robusto, come scrive Vittorio Ragusa in “La vera cucina casereccia a Roma e nel Lazio”: “La pagliata per condire i rigatoni è quella della ’digiuna’, quella cioè, che contiene solo latte: della vitellina lattante, insomma;
è meno saporita di quella di manzo, ma è più delicata. Si netta con le mani levando il grasso e le pelline, si lava, si taglia a pezzi e, con gli stecchini o il filo, si fanno tante ciambellette”.
Concorda anche Aldo Fabrizi, il quale ribadisce l’importanza della genuinità e della qualità del prodotto per ottenere una riuscita esemplare del piatto:
Pè fa ‘sto piatto serve ‘na pajata,
che solo un vero amico ar mattatoio
ve la po’ dà, sicura, senza imbrojo,
de vitella de latte appena nata.
Fate soffriggere in un tegame l’olio, l’aglio, la carota e la costa di sedano. Lavate accuratamente la pajata, tagliatela a pezzi lunghi una quindicina di centimetri, legatela agli estremi a mò di salsiccia (oggi si preferisce acquistarla già tagliata e legata dal macellaio) ed inseritela nel tegame. Sfumate col vino bianco, aggiungete la passata di pomodoro, il peperoncino, aggiustate di sale e fate cucinare per circa due ore mescolando di frequente.
Portate a cottura i rigatoni, scolateli al dente, versateli nel tegame contenente il sugo, mantecate per un paio di minuti e serviteli caldi ricoperti da un paio di ciambelle di pajata e da una spolverata di pecorino grattugiato.
Dal piatto tipico della sua cucina a…la ROMA di J. W. GOETHE
Finalmente posso aprire la bocca, e mandare un lieto saluto a miei amici. Mi sia perdonato il segreto, e la partenza di nascosto. Osavo appena confessare a me stesso dove ero diretto; per istrada ancora, temevo di non arrivare, e soltanto quando varcai la Porta del Popolo, fui certo di trovarmi a Roma.
Ora lo posso confessare; negli ultimi tempi io non potevo più nè leggere un libro latino, nè gettare lo sguardo sopra una vista d’Italia. Il desiderio di visitare queste contrade, era diventato per me una necessità. Ora che lo avrò soddisfatto, mi torneranno tanto più cara la mia patria, più cari i miei amici,
e proverò tanto maggiore soddisfazione nel ritornare costì, in quanto chè sento con certezza che non terrò solo per mio uso, ed a mio solo vantaggio i tesori raccolti, ma che saranno questi a disposizione di tutti[…]
Sì; io sono finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Vedo ora qui avverati i sogni della mia prima gioventù; vedo nella loro realtà le prime stampe di cui abbia memoria, quelle viste di Roma, le quali stavano appese alle pareti dell’anticamera, nella casa paterna; vedo ora nella loro realtà esposti tutti ai miei sguardi, quegli oggetti che già conoscevo dai dipinti, dai disegni, dalle incisioni in rame ed in legno, dalle riproduzioni in gesso, ed in sughero; dovunque io mi aggiro, trovo una conoscenza, in un mondo nuovo;
tutto mi riesce nuovo, ad onta sia ogni cosa, quale io me la rappresentavo. E potrei dirne altrettanto delle mie idee, delle mie osservazioni. Non ho avuto pensieri nuovi; non ho trovata cosa che già io non conoscessi, ma le mie antiche idee sono cotanto vive, cotanto precise, cotanto connesse, che io le posso ritenere nuove[…]
Mi vado formando mano a mano, un’idea generale di questa città. Giriamo continuamente, vo acquistando cognizione della pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine, gli edifici, visito ora una villa, ora un altra;
mi fermo a lungo davanti alle rarità le più notevoli; cammino sù e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa, imperocchè soltanto a Roma, è possibile prepararsi a conoscere Roma. Lasciatemi però dire essere ufficio triste ed ingrato, quello di cavar fuori Roma antica dalla Roma moderna; ma è pure forza compierlo, nella speranza di rinvenirvi grande soddisfazione.
Trovansi tracce di splendidezza e di distruzione, le quali superano ogni mia imaginazione. Quanto fu rispettato dai barbari, venne manomesso dagli architetti moderni.
Quando si considera l’esistenza di questa città, la quale risale a due mille anni ed oltre; quando si pon mente a tutte le vicissitudini, e tutte le trasformazioni a cui andò soggetta nel corso dei secoli, e che si pensa sorgere pure essa sempre sullo stesso suolo, sugli stessi colli; che si scorgono ancora le stesse
colonne, gli stessi muri; che nel popolo si riconoscono tuttora tracce del carattere antico, si finisce per diventare in certo modo contemporaneo delle varie epoche, delle diverse vicende, per comprendere quanto a primo aspetto pareva oscurissimo, vale a dire, in qual modo una Roma sia succeduta all’altra; e non solo quella moderna all’antica, ma quelle ancora le quali si formarono, e si succedettero, nelle epoche intermedie…Sia che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista di ogni genere, di ogni specie; palazzi, e rovine, giardini e deserti, strade ampie e strade strette, casupole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero disegnare sopra uno stesso foglio di carta. Converrebbe avere cento mani, per poter descrivere tutto[…]
Pensavo bensì imparare qui molte cose, ma non mi sarei imaginato mai di dovere ritornare addirittura a scuola, di dovere ripetere le tante cose, completare lo studio di tante altre. Ora però ho finito per persuadermene, mi vi si sono pienamente rassegnato, e quanto più obbedisco a questa necessità,
tanto maggiore soddisfazione ne provo. Mi trovo nella condizione di un architetto, il quale voleva innalzare una torre, e si accorge di avere gittate cattive fondazioni; se non che per buona sorte se ne avvide ancora in tempo, sgombra quelle dalla terra che di già le ricopriva, cerca correggere il difetto,
rafforzarle, e si rallegra in anticipazione della solidità del suo futuro edificio.
Voglia Iddio che anche dopo il mio ritorno io possa continuare a sentire le conseguenze morali della nuova sfera di vita nella quale sono entrato, imperocchè coll’allargarsi del sentimento artistico, sono pure le idee morali quelle, le quali vanno soggette a maggiori modificazioni.
(da “Ricordi di Viaggio in Italia nel 1786-87” di Johann Wolfgang Goethe)
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