PANE NOSTRO

I nostri genitori, se ne cadeva a terra un pezzetto, lo raccoglievano e impedivano che qualcuno potesse calpestarlo, anche solo per distrazione.
Caldo, profumato, croccante e infarinante. Sì, proprio lui… il pane.
Tutto ciò che ha relazione con la vita desta risonanze profonde in ciascuno di noi. Il sole, l’aria, il vento, la pioggia, i cicli della natura e i loro fenomeni sono parte di noi. Anche il pane, simbolo dei nostri bisogni primordiali, richiama questo nostro legame con la terra e la vita.
Viene dal grano, la cui crescita e maturazione rispecchiano il trascorrere delle stagioni, che scandiscono il palpito della terra, il suo respiro vitale.
Un tempo, si segnava con la croce la pagnotta fermentata prima di metterla in forno e si segnava prima di consumarla. E non era una “devozione privata”, ma il sigillo di una civiltà attenta e rispettosa dei doni della terra.
Per la nonna paterna, nessun dono aveva il valore del pane fatto in casa, con la farina delle spighe cresciute nei campi che s’arrampicavano su per un terreno scosceso e a giugno splendevano nel sole.
Era la benedizione alle dure fatiche compiute per la terra, il segno che le speranze potevano ancora risorgere nei cuori così spesso provati dall’angoscia del domani.
Quando si preparava il pane, tutto in casa prendeva un aspetto di letizia, di festa composta, come se intorno agli umili gesti si diffondesse una luce, e il segno di croce che la nonna tracciava sopra le forme molli e bianche allineate sull’assicella portava nei cuori un senso di pace: la certezza della santità del lavoro compiuto sotto la protezione del Signore.
Altri tempi, forse, ma non così lontani nella memoria…
Ne sento ancora la suggestione ed ho un tuffo nel cuore di fronte allo spreco sconsiderato che oggi si fa del pane, e non del pane soltanto. Siamo costantemente immersi nell’”usa e getta”, una ricetta spietata che si applica non soltanto alle cose – cibi, abiti, giocattoli quasi nuovi, cianfrusaglie che il giorno prima avevano incantato lo spensierato acquirente – ma anche ai rapporti umani più intimi e coinvolgenti. Consumiamo e basta; senza neppure attardarci a cogliere il gusto, il profumo delle cose che ci circondano, della vita che ci è donata.
In questo senso lo spreco del pane è una metafora della civiltà d’oggi. La mentalità del nostro tempo pone al vertice delle ambizioni il possesso delle cose, di troppe cose, trascinandoci pian piano in una spirale di ingordigia insaziabile che toglie la serenità del cuore. Da questa insaziabilità allo spreco il passo è breve. Lo spreco, infatti, non impressiona più; le città rischiano di soffocare sotto montagne di rifiuti, detriti di una cultura che offende l’intelligenza e insulta chi quotidianamente vive di stenti.
Al mattino presto, camminando in città, mi capita di osservare persone impegnate nella ricerca nei cassonetti delle immondizie: sono l’emblema della follia della nostra società, opulenta e sprecona, che sembra avviarsi così disinvoltamente al declino.
Significativamente, tra quei rifiuti finiscono ogni tanto, senza che ne proviamo sufficiente orrore e vergogna, anche neonati “gettati via”. La vita come il pane, tra le immondizie.
Nel silenzio…in disparte, dovremmo interrogarci pesantemente e riflettere.
Il lievito ha bisogno di tempo, di un tempo lungo, adeguato, per fermentare e far crescere la pasta che diventerà pane buono. Solo dopo, di primo mattino, mentre la città ancora dorme, il fornaio si alza, come sentinella, e mette sul fuoco quell’impasto pallido che porterà profumo, calore, colore alla nostra tavola.
Non c’è rumore intorno. Occorrono tempo, spazio, silenzio perché si compiano le trasformazioni importanti che mutano l’esistenza.
Di più, il pane della condivisione.
Tutto ci appartiene, quando accettiamo che gli altri siano importanti, significativi, significanti per la nostra solitudine, per il nostro essere noi stessi.
Solitudine e convivialità sono le colonne della casa nuova che è possibile costruire quando si smette di aspettare che siano gli altri a cominciare.
Non è possibile star bene con gli altri, se non si è capaci di restare, di stare in silenzio e solitudine con se stessi. Cosa è possibile spartire, se non si sa ciò che abita dentro di sé?
Dove tutti odono chiasso, a pochi riesce di udire voci e parole: la voce che parla. Non sono solo il silenzio e la solitudine, dunque, ad avere suono e messaggio. Ovunque è possibile sentire e condividere, vedere e spartire. Convivialità: parola antica, eppure in grado di provocare anche un oggi dove, troppo spesso, si vive soli e lontani, e di creare spazi e tempi di sosta e spartizione.
Ci vuole tempo, più tempo per entrare nella storia dell’altro, una storia che non è mai possibile possedere, ma solo condividere, un incontro che non si può comprendere, ma solo accogliere, una esperienza che non è possibile spiegare, ma solo condividere.
Può bastare anche un pezzo di pane, persino indurito: se messo insieme all’ultimo mezzo bicchiere di vino avanzato a un altro che nulla di più possiede, può diventare una cena, una festa, un incontro. E nessuna festa è possibile, se non vi sia almeno un pezzo di vita da spezzare e da spartire e un frammento di speranza da condividere.
Il tempo della sosta viene buono, ad ogni stagione, per farci camminare su sentieri raramente calpestati, per abitare spazi e profondità troppo spesso solo sognate, per farci capire che riusciremo a vivere bene insieme, solo se sapremo star bene con noi stessi.
Allora, soltanto allora, saremo in grado di vedere le cose con lucidità, di compiere ciò che la vita chiede, di assaporare un pane buono, ben cotto, fatto per essere spezzato e soprattutto condiviso.
(Servizio fotografico realizzato da Marina Tarozzi)
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