MARKETING BIOPOLITICO E IL SE’ COME IMPRESA

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cms_21970/1.jpgLa tanto osannata soft rivoluzione tecnologica ha permesso di estendere a pressoché ogni anfratto della nostra vita il comando del software nel linguaggio dei vecchi e nuovi media, nella politica, nelle amministrazioni, nell’economia, in ogni aspetto del nostro vissuto. Il neocapitalismo comunicativo è lo spostamento delle decisioni e del dibattito pubblico attraverso la “micropolitica del tutti i giorni”, ovvero lo stabilire la straordinaria forza e credenza nella connettività e nella velocità di Internet, nel dare importanza all’economia dell’immagine di sé. La società dello spettacolo di Guy Debord si è spostata su piattaforme in grado di fornire gratuitamente fama con una serie di elementi visivi coerenti, una stilizzazione ripetitiva, un’estetica che possa risultare necessario per fare di sé un marchio. È l’ascesa dell’imprenditore di sé attraverso una nuova gamma di tecniche di marketing definita “marketing biopolitico”, cioè incentrato sull’estrazione di valore dall’atto stesso della comunicazione.

cms_21970/2.jpgI fautori del self made man digitale appreso l’ethos e l’architettura della rete, tendono a enfatizzare quelle che sono le peculiarità della rete: l’apertura radicale, l’assenza di gerarchia, le tante strutture collaborative, la commistione di prodotti di marca e di sé come marca. Social come Instagram sono considerati come appropriati come potenziali siti per ottenere successi commerciali di questo tipo, e il selfie del corpo come merce da mettere in vetrina e il conseguente posizionamento del prodotto, cercano di massimizzare sentimenti come empatia e simpatia su di sé con l’utilizzo degli strumenti (mi piace, cuoricino, emoji) appositamente creati dai social per quantificare la popolarità della propria immagine e dunque per monetizzare la ricezione del pubblico attraverso questa forma di misurazione dell’attenzione. Interi nuclei familiari come i Kardashian o celebrities dei social come Selena Gomez, Taylor Swift, Ariana Grande, Beyoncé contano decine di milioni di follower sui quali esercitano il potere di influenzatori, esercitando un uso strategico dei propri profili con la costruzione di un marketing che sfrutta uno spazio dove convivono pratiche di co-creazione della marca.

cms_21970/3.jpgGli Instagramer, Igers nella forma contratta, lavorano sulla propria immagine per colonizzare un discorso su di sé mediante un’incessante attività promozionale che si fonda su un capitalismo in cui le comunità online sono divenuti dispositivi ideologici. Essere dunque popolari sui social media è il tratto essenziale per acquisire lo status di celebrity ed è al contempo un prezioso indicatore di status che ne alimenta la riconoscibilità, risorsa preziosa nell’economia dell’attenzione. La costruzione di un proprio marchio nell’estetica del quotidiano prodotta da social come Instagram, produce una tipologia di lavoro immateriale e libero di partecipazione aperta alla creazione di contenuti in rete, un lavoro che non si contestualizza attraverso tempi e ripetitività delle azioni, ma attraverso la creatività, l’estrazione di valore e il continuo aggiornamento della propria vetrina web (nuove modalità per combattere noia e obsolescenza). È una nuova forma di capitalismo che però ha bisogno delle sue strutture e attrezzature sempre in aggiornamento come il lavoro svolto da programmatori, designer e creativi veri e propri deus ex machina di una produzione infinita e polisemica di attributi estetici.

Andrea Alessandrino

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