HANS JONAS, LA PAURA E LA DEMOCRAZIA

‘‘Se non ci fosse la menzogna ignoreremmo il valore della verità’’(H.Jonas)

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cms_22775/1v.jpgIl riferimento alla paura è, certo, uno dei tratti peculiari del pensiero di Jonas. Ogni paura è scatenata da una minaccia che rinvia, a sua volta, a un male effettivo: nell’ “etica del futuro” la percezione del malum, per il turbamento emotivo che comporta, sembra più facile della percezione del bonum. Per questo la paura è la coscienza che l’uomo ha un limite, ma prima ancora è la coscienza che la mancanza del limite porta in sé un pericolo.

Ma siamo poi in grado di valutare correttamente le minacce? La paura diviene in questo modo uno strumento di conoscenza, ha una vera e propria portata euristica, in quanto evidenzia il valore di ciò che è minacciato e il nostro attaccamento a esso. Soltanto quando la stessa definizione di umanità è rimessa in causa dal progresso tecnico, scopriamo sia il valore che essa possiede sia la necessità di preservarla. La possibilità di clonazione, ad esempio, ci fa cogliere l’insostituibilità di un essere umano, mentre il prolungamento indefinito della vita ci fa riscoprire il significato della morte.

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Accanto al significato euristico della paura se ne dà uno cognitivo e pratico che dovrebbe, da un lato, rivelarci i veri valori, dall’altro, orientare l’agire nel senso della loro salvaguardia: “Mentre non mi facevo illusioni circa la forza della ragione nella gestione degli affari umani – ricorda Jonas – attribuivo un’enorme importanza, col vecchio Hobbes, alla forza salutare della nuda paura”.

Jonas, col riferimento a Hobbes, non sembra avvedersi delle differenze essenziali che separano il suo concetto di paura da quello di Hobbes. Infatti, mentre per Hobbes il “male supremo” è – in senso definito – “la perdita della vita”, in particolare, ‘‘della mia vita’’ -, per Jonas - secondo l’imperativo dell’etica della responsabilità - è tutto ciò – in senso indefinito – che renderebbe impossibile “una permanenza illimitata dell’umanità sulla terra”.

Ma se in Hobbes, la paura è un istinto vitale ed egoistico, che attiva il realismo della riflessione e la scelta razionale, in Jonas è una virtù che dev’essere salvaguardata, dato il suo carattere altruistico e positivo. Da qui è anche la diversa “razionalità” della paura che spinge l’uomo hobbesiano al “patto sociale” e quindi lo fa accedere alla dimensione politica, mentre induce l’uomo di Jonas alla rinuncia e al rifugio nel “sacro”.

cms_22775/3v.jpgSi potrebbe obiettare che l’euristica della paura, anziché riproporre i temi del controllo razionale, proprio della grande tradizione dell’umanesimo europeo, finisce col recuperare una memoria sacrale del limite. L’adozione di nuovi tabù – termine che evoca il timore del primitivo dinanzi a ciò che è oscuro e temibile – non fa che ridurre ulteriormente lo spazio di una ragione che sfida i tabù e si interroga sul sacro, ovvero su ciò che, per definizione, è sottratto a ogni discussione.

Non si può non rilevare come l’estensione del paradigma della responsabilità parentale all’etica pubblica e alla sfera politica, possa sfociare o nel paternalismo o in una specie di dispotismo illuminato. Potremmo chiederci se esiste continuità nella diversa responsabilità, dei genitori verso i figli - di tipo paterno - e dei governanti verso i cittadini - di tipo politico.

Una tale filosofia politica non crede che la democrazia costituisca un sistema in grado di gestirne i rischi: solo un’élite ristretta potrà assumere decisioni responsabili per tutti. Ma questo costituisce, sul piano della politica, un altro aspetto dello scacco della ragione argomentativa. In Jonas c’è da chiedersi se la sopravvalutazione della paura in relazione al potere politico – e il conseguente appello a un’aristocrazia di sapienti – non si colleghi a un’ambiguità costitutiva e conseguente sfiducia sullo statuto della ragione.

Riferendoci alle teorie più recenti, che si richiamano alla “narrativa della paura”, sarà utile riportare il pensiero del sociologo Frank Furedi, per le sue affinità con il pensiero di Jonas. Se Jonas ritiene i regimi democratici, incapaci di dare risposte efficaci alle sfide della tecnoscienza, e l’incapacità del governo rappresentativo di far fronte alle nuove esigenze sulla base del suo funzionamento e dei suoi principi normali, Furedi, nel suo libro ‘‘How Fear Works’’ scrive: “il linguaggio che usiamo oggi è diventato più incline a usare la retorica della paura”.

Per Furedi, non è solo una questione di lessico, ma la paura è un autentico progetto e indica come ormai la “narrativa della paura” abbia acquisito uno “status di senso comune”, giungendo “alla conclusione che la società è diventata innocentemente estranea ai valori – come coraggio, giudizio, ragionamento, responsabilità – che sono necessari per la gestione della paura. La cultura della paura non è un prodotto della natura”. E che la paura ormai sia dappertutto, specie in politica, lo conferma il sociologo, per il quale non sono infatti solo i populisti a fare un uso politico dell’angoscia e in Europa usano l’immigrazione come uno spauracchio. Ma non sono gli unici: esso è praticato anche dalle élite progressiste e liberal-democratiche.

Questa ossessione antimmigrazione fa parte della cultura della paura – ed è quindi propaganda – oppure è un problema reale? “Credo che tutti i partiti – constata Furedi - facciano affidamento sulla politica della paura. La differenza maggiore tra i populisti e gli anti-populisti consiste nella minaccia che secondo loro dovrebbe farci preoccupare: alcuni partiti gonfiano il problema dell’immigrazione, i loro avversari fanno lo stesso con la loro isteria sulla minaccia del populismo. Il problema vero non è tanto l’immigrazione, ma il fatto che le decisioni sugli spostamenti delle persone vengano prese da chi fa le politiche senza consultare i cittadini. Una volta che l’immigrazione è imposta dall’alto, i cittadini – le cui vite vengono colpite da fenomeni come questo – reagiranno spesso in maniera negativa”.

In merito alla questione dell’immigrazione - aggiunge Furedi -, “la maggior parte delle nazioni europee – specialmente quelle occidentali e nel nord d’Europa – rigettano le politiche di assimilazione a vantaggio del multiculturalismo. Questo incoraggia la segregazione e la frammentazione della vita pubblica”. I partiti populisti usano le teorie del complotto per conquistare voti. Quando si abbracciano idee semplicistiche sul funzionamento del mondo, l’armamentario retorico diventa consistente. Una volta che la vita pubblica si degrada, la politica della paura diventa prevalente e l’immaginazione cospirazionista acquista una grande rilevanza.

Basta guardare la campagna presidenziale di Donald Trump per rendersene conto.

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C’è da chiedersi se la crescita dei movimenti populisti sia dovuta alla cultura della paura e la retorica dell’anti-populismo offre il miglior esempio di cultura della paura. Secondo Furedi, la loro crescente influenza è dovuta allo smantellamento dell’accordo politico tra élites dopo la Seconda guerra mondiale. Se in Europa non c’è un vero scontro tra il popolo e l’establishment o élite politiche, tuttavia si registrano tensione e ostilità. Le vecchie élites politiche sono sulla difensiva, pienamente consapevoli del fatto che mancano di legittimità; infatti, molti cittadini non si fidano di loro ma non sono in grado di trovare un mezzo efficace con cui esprimere la loro voce, in presenza di una forte domanda di nuove idee e soluzioni.

Anche per questo, il conflitto raramente assume una forma politica coerente. Non solo dobbiamo imparare a tutelarci dagli sbandamenti del potere, ma Furedi, nel suo libro ‘‘How Fear Works’’, sostiene che il costante incitamento alla paura da parte della classe politica rischia di diminuire la sua capacità di ispirare e motivare i cittadini.

In effetti, Jonas ritiene i regimi democratici e rappresentativi incapaci di far fronte alle nuove esigenze sulla base del loro funzionamento e dei loro normali principi. Solo gli interessi fanno udire la loro voce e sentire il loro peso. Nulla, in effetti, nel “Principio responsabilità” fa pensare alla razionalità propria della democrazia rappresentativa e pluralistica. Ciò ripropone in termini radicali la questione del potere del saggio, ovvero della forza delle idee libere dall’interesse personale nel corpo politico.

cms_22775/5v.jpgSu questo piano la responsabilità cui richiamarsi è quella della comunità morale in quanto tale e questa responsabilità, di fronte alla paura per la catastrofe che a causa del potere scientifico e tecnologico stiamo rischiando, può spingerci verso un regime autoritario e totalitario. Tuttavia, in un’analisi critica della filosofia politica jonasiana, Franco Volpi si chiede se il filosofo non sottovaluti troppo le capacità di autoregolazione dei sistemi democratici e non sopravvaluti troppo il potere di controllo dei sistemi totalitari (Le paradigme perdu: l’éthique contemporaine face à la technique).

Dinanzi agli esiti rinunciatari dell’etica di Jonas, D. Müller, nel saggio “L’horizon temporel de l’éthique”, sottolinea come la pienezza della responsabilità richieda una rivalutazione del nostro rapporto con l’avvenire e quindi una nuova visione della dimensione utopica. Pur proiettato in una dimensione utopica, il Prinzip-Verantwortung, il principio responsabilità di Jonas si mantiene nel solco del razionalismo occidentale e funge da sorta di “terza via” fra l’eccesso di speranza, simboleggiato dal Prinzip-Hoffnung di Bloch e l’eccesso di disperazione presente nel Prinzip-Verzweiflung di Anders.

‘‘Piuttosto che fondare il principio responsabilità su un’euristica della paura e su una confutazione globalizzante di ogni principio speranza, non sarebbe meglio recuperare il senso positivo dell’utopia, intesa non come volontà di realizzare l’uomo nuovo, ma come immaginazione creatrice e come fiducia critica nelle possibilità dell’essere umano?” Poiché l’uomo è diventato un pericolo per se stesso e per l’intera biosfera, paura e trepidazione finiscono per costituire la fonte dell’etica della responsabilità.

Jonas ritiene che il futuro che si prospetta all’uomo tecnologico abbia una sua specificità, perché mette in gioco la stessa immagine dell’uomo e lo pone dinanzi alla necessità di salvaguardare la propria integrità. Se è vero - come afferma Jonas -, che l’avventura della tecnologia, con le sue imprese, esige una riflessione spinta all’estremo, per dominare il nostro stesso progetto di dominio, occorre imparare a pensare la complessità.

Gabriella Bianco

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