ALLA SCOPERTA DELLA CAPPELLA SISTINA (XVII)
I pennacchi

I grandi pennacchi posti agli angoli della volta narrano quattro episodi della miracolosa salvazione del popolo di Israele, interpretabili come prefigurazioni del Messia, poiché testimoniano la costante presenza di Dio nella vita del suo popolo e il perpetuo rinnovarsi della promessa della Redenzione. Essi si pongono, quindi, come anello di congiunzione tra le storie della volta e quelle delle pareti.
DAVIDE E GOLIA
Davide e Golia è un affresco (570x970 cm) di Michelangelo Buonarroti, databile al 1508 circa e facente parte della decorazione della volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma, commissionata da Giulio II.
Davide e Golia fa parte dei quattro pennacchi con storie del Vecchio Testamento, legate alla protezione del popolo d’Israele da parte di Dio.
La scena è ambientata in notturna, con le figure dei protagonisti al centro che però sono rischiarati da una luce chiara e forte. Davide e Golia sono avvinghiati nel duello mortale, col gigante già caduto a terra e il giovane che gli è già sopra, prendendolo per i capelli per tagliargli la testa con la grande spada che tiene già alzata nella destra. La testa di Davide venne riportata con un accurato spolvero e mostra un forte scorcio con una fitta tessitura di pennellate.
In primo piano si vede il frombolo, abbandonato a terra. Sullo sfondo si vede una tenda chiara con riflessi violacei e, ai lati, spuntano in lontananza e nell’oscurità volti di soldati che assistono con apprensione al duello.
La composizione è accuratamente studiata in modo da attenuare l’irregolarità della superficie, forzando lo scorcio audace dei due protagonisti al centro, con il perimetro della tenda che è visto da molto in alto, generando un’accelerazione prospettica lungo l’asse centrale, come se le figure stessero rovesciandosi sullo spettatore.
La scena è da mettere in relazione, da un punto di vista iconologico, con l’altro pennacchio di Giuditta e Oloferne: in entrambi i casi due figure che non sembrerebbero brillare per forza - una donna e un giovanetto - riescono a liberare il popolo d’Israele da terribili nemici, prefigurando il trionfo della Chiesa. I due pennacchi alludono anche all’"umiltà vittoriosa", e il tema dell’"umiliazione" si trova anche nella vicina storia dell’Ebbrezza di Noè, che prefigura il Cristo deriso.
GIUDITTA E OLOFERNE
Giuditta e Oloferne è un affresco (570x970 cm) di Michelangelo Buonarroti, databile al 1508 circa e facente parte della decorazione della volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma, commissionata da Giulio II.
Giuditta e Oloferne fa parte dei quattro pennacchi con storie del Vecchio Testamento, legate alla protezione del popolo d’Israele da parte di Dio.
La scena è divisibile in tre zone di diversa larghezza, che si ritrovano anche in uno studio a carboncino oggi al Museo Teylers di Haarlem, nei Paesi Bassi, sebbene con una diversa disposizione delle figure. Al centro si vedono Giuditta e l’ancella stagliarsi in primo piano e in piena luce contro una parete bianca disposta in obliquo. Esse hanno già completato la loro missione di uccidere il tiranno Oloferne, infatti ne portano la grossa testa su un vassoio metallico sulla testa dell’ancella (Giuditta fa per coprirlo con un panno), mentre a destra si vede, nell’oscurità, la tenda del generale che giace nudo nel letto, ancora in preda agli spasmi: se il braccio sinistro appare già morto, quello destro si leva minaccioso e la gamba sinistra punta con forza contro il letto facendo increspare le lenzuola. L’eroina biblica non mostra il proprio viso, ma sembra guardare all’orrida visione del corpo decapitato in frenetica agitazione. A sinistra infine, nell’oscurità, riempie l’angolo una guardia addormentata con la veste verde e uno scudo rosso su cui è adagiato un braccio.
Le due donne vennero accuratamente trasferite da un cartone preparatorio, con lo spolvero, mentre la figura di Oloferne, dipinta in una sola "giornata", fu riportato con la tecnica dell’incisione dei contorni sull’intonaco fresco; il soldato infine venne dipinto di getto, senza alcuna preparazione.
Notevole è il contrasto tra la parte centrale in piena luce e la penombra degli angoli, che asseconda la forma triangolare e concava del pennacchio, generando un senso di straordinaria profondità spaziale. Le due donne inoltre sono evidenziate da squillanti contrasti cromatici: nelle loro vesti si possono contare due tonalità di azzurro, due di giallo, un verde chiaro, un rosa, un rosso acceso, un violetto spento.
Nella testa di Oloferne alcuni hanno voluto riconoscere un autoritratto di Michelangelo.
La scena è da mettere in relazione, da un punto di vista iconologico, con l’altro pennacchio di Davide e Golia: in entrambi i casi due figure che non sembrerebbero brillare per forza - una donna e un giovanetto - riescono a liberare il popolo d’Israele da terribili nemici, prefigurando il trionfo della Chiesa. I due pennacchi alludono anche all’"umiltà vittoriosa", e il tema dell’"umiliazione" si trova anche nella vicina storia dell’Ebbrezza di Noè, che prefigura il Cristo deriso.
PUNIZIONE DI AMAN
La Punizione di Aman è un affresco (585×985 cm) di Michelangelo Buonarroti, databile al 1511-1512 circa e facente parte della decorazione della volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma, commissionata da Giulio II.
Nel dipingere la volta, Michelangelo procedette dalle campate vicino alla porta d’ingresso, quella usata durante i solenni ingressi in cappella del pontefice e del suo seguito, fino alla campata sopra l’altare. La Punizione di Aman (Ester 7,1-10[1]) quindi, che è il pennacchio a destra dell’altare, fu una delle ultime scene a essere realizzata. Il pennacchio fu interessato da una lesione che provocò una caduta dell’intonaco, restaurato con integrazioni prima dal Carnevali nel 1570 e poi dal Mazzuoli nel 1710-1712. La parte rifatta è ben visibile nelle tre figure a sinistra poiché di colore più scuro, che testimonia l’annerimento degli affreschi già nella seconda metà del Cinquecento.
Descrizione e stile
La Punizione di Aman fa parte dei quattro pennacchi con storie del Vecchio Testamento, legate alla protezione del popolo d’Israele da parte di Dio.
Aman è raffigurato tre volte: a destra il sovrano Assuero lo invia a prendere gli abiti regali per Mardocheo, che è seduto sulla soglia; a sinistra Ester rivela ad Assuero la congiura di Aman e al centro Aman è punito, issato su una sorta di croce con un vertiginoso scorcio che lo proietta fuori dalla rappresentazione, verso lo spettatore. Aman è sempre riconoscibile per l’abito giallo, che compare come un panno volante nella scena del martirio, dove il corpo è nudo. Il corpo che taglia diagonalmente la scena domina drammaticamente l’intera rappresentazione, ed è rafforzato dalla parete bianca in scorcio della parete della stanza di Assuero, in cui si apre una porta che è attraversata, con notevole virtuosismo compositivo, da Aman in movimento.
Michelangelo, scegliendo il supplizio della crocifissione invece dell’impiccagione riportata nel testo biblico, sottolineò il tema del parallelismo con la redenzione operata tramite l’incarnazione e il sacrificio di Cristo.
In questa scena, come nelle altre immediatamente vicine, l’artista insistette particolarmente sugli scorci, in rapporto a una lettura degli affreschi che prevalentemente doveva avvenire lungo l’asse centrale, dalla porta cerimoniale verso l’altare. Buonarroti impiegò ventuno "giornate" per dipingere la scena, di cui ben tre per la sola figura di Aman: il disegno venne prima predisposto su un cartone e poi trasferito mediante incisione diretta, con una cura estrema per via dello scorcio particolarmente complesso. Esistono due fogli a sanguigna che studiano la sua figura, uno al British Museum e l’altro al Museo Teylers di Haarlem.
Alcuni rettangoli scuri testimoniano lo stato delle pitture prima del restauro.
SERPENTE DI BRONZO
Il Serpente di bronzo è un affresco (585×985 cm) di Michelangelo Buonarroti, databile al 1511-1512 circa e facente parte della decorazione della volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma, commissionata da Giulio II.
Nel dipingere la volta, Michelangelo procedette dalle campate vicino alla porta d’ingresso, quella usata durante i solenni ingressi in cappella del pontefice e del suo seguito, fino alla campata sopra l’altare. Il Serpente di bronzo (Numeri 21,1-9) quindi, che è il pennacchio a sinistra dell’altare, fu una delle ultime scene a essere realizzata.
Descrizione e stile
Il Serpente di bronzo fa parte dei quattro pennacchi con storie del Vecchio Testamento, legate alla protezione del popolo d’Israele da parte di Dio. Gli Israeliti, colpevoli di aver mormorato contro Dio e contro Mosè, vengono puniti con l’invio di serpenti velenosi a uccidere i peccatori. Mosè però, impietosito e pentito del suo accesso d’ira, forgia un serpente di bronzo (Necustan): chiunque, morsicato dai serpenti velenosi, si sarebbe potuto salvare solo guardando verso esso.
La scena delle punizione occupa gran parte del pennacchio a destra, con un indescrivibile tumulto di corpi intrecciati, reso ancora più espressivo dalla cromia violenta e dal frequente uso di cangianti, soprattutto nei toni rossi e gialli. Violente sono le torsioni, i volti sono trasformati in maschere urlanti di terrore e vorticosi sono gli scorci, come quello dell’uomo seminudo in primo piano, del quale si vedono le gambe piegate e lo scorcio della testa dal basso. Al centro torreggia il serpente bronzeo issato e a sinistra si trova il gruppo degli scampati, che implorano, con gli sguardi e ampi gesti, l’immagine salvifica.
Molto ammirato da Vasari, l’affresco fu un prezioso exemplum per un certo filone dei Manieristi, soprattutto da Giulio Romano fino allo stesso Vasari.
In questa scena, come nelle altre immediatamente vicine, l’artista insistette particolarmente sugli scorci, in rapporto a una lettura degli affreschi che prevalentemente doveva avvenire lungo l’asse centrale, dalla porta cerimoniale verso l’altare.
Da un punto di vista iconologico la scena è una prefigurazione della crocifissione di Gesù: si legge nel Vangelo di Giovanni «come Mosè innalzò il serpente di bronzo nel deserto, così il figlio dell’uomo sarà innalzato» (3,14).
Alcuni rettangoli scuri testimoniano lo stato delle pitture prima del restauro.
Lascia un commento
NB: I commenti vengono approvati dalla redazione e in seguito pubblicati sul giornale, la tua email non verrà pubblicata.