IL FICO STERILE
Arte e Spiritualità

Oggi propongo la miniatura che raffigura la «Parabola del fico sterile». È opera di Francesco Rosselli, risalente alla seconda metà XV secolo e conservata nella Libreria Piccolomini del Duomo di Siena.
Si tratta di una lettera abitata, definizione tecnica di un capolettera miniato al suo interno. Mi ha sempre stupito la minuziosità e la precisione dei particolari resi dai miniaturisti: si tratta a volte di vere e proprie opere d’arte che hanno richiesto una profonda pazienza e precisione da parte dell’autore.
Il tema prende spunto da una parabola raccontata da Gesù e raccolta dall’evangelista Luca. Al centro della miniatura si vede un albero di fico, che nella tradizione biblica simboleggia il popolo di Israele e che nel racconto di Gesù diventa emblema dell’umanità e della sua capacità di scegliere tra bene e male; a sinistra si vede un uomo: è il padrone che ha piantato l’albero, vestito in maniera elegante e simbolo di Dio padre. Poiché non trova frutti sull’albero impone all’agricoltore di liberarsi di esso: «ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Il comportamento di Dio può sembrare molto severo, ma che l’albero rappresenti Israele o l’umanità intera, Dio si aspetta che il suo popolo mostri i propri frutti. Anche Gesù lo dice: «Chi rimane in me ed io in lui, fa molto frutto». E il frutto non è materiale, ma spirituale: pace, amore, carità, gentilezza, altruismo; e questi sono frutti che derivano spontaneamente da una vita vissuta realmente in Cristo. Dunque, se non c’è frutto, siamo davvero discepoli?
L’agricoltore che si vede a sinistra è proprio immagine di Gesù, il Messia, inviato dal Padre per concimare, curare e provare a ridare vita al fico che si riteneva ormai arido; decide di soccorrere l’albero e di preservarlo, di concedergli ancora un’opportunità: «padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai». All’azione del tagliare allude l’ascia rappresentata ai piedi dell’agricoltore: l’ascia è strumento che divide, che separa il buono dal cattivo e che quindi rimanda all’azione divina della fine dei tempi quando saranno divisi i buoni dai cattivi. Inoltre, la parola cattivo deriva dal latino captivus, e significa prigioniero: chi fa il male è in qualche maniera schiavo del male stesso, in ogni peccato l’uomo rinuncia alla sua bellezza e rifugge dalla sua grandezza.
Il senso profondo del brano è la pazienza di Dio, che attende e spera la conversione dell’uomo, concedendogli tempo e opportunità sempre nuovi: Dio non si arrende davanti all’aridità e alla frequente chiusura del cuore umano. Infatti, ogni giudizio di Dio è orientato alla redenzione e al pentimento: il suo amore e la sua pazienza sono senza fine; ad un certo punto, sarà il solo tempo a terminare, e a quel punto sarà importante mostrare i propri frutti derivati da una vita vissuta rettamente.
Allora la parabola, così ben rappresentata dal miniaturista, ti invita a scegliere Dio invece di te stesso, ti propone di non temere di fare cose grandi, ti chiede di avere fiducia in Dio che è paziente con te, tanto da chiamarti alla vita per un motivo ben preciso. Spesso il rischio è di rimanere paralizzati, in una sorta di limbo di non decisione e di non azione, ma se hai capito quel che Dio ti chiede, agisci! Quanta bellezza l’uomo ha spesso sprecato per aver tergiversato? Più conosci l’agricoltore Gesù e più conosci te stesso e scopri di non essere un errore, anzi prendi coscienza del fatto che proprio il rifiuto e la fuga da te stesso ti hanno portato ai tuoi errori. Se il Figlio di Dio ha scelto di morire per te, non hai diritto di disprezzarti perché sempre e comunque, qualsiasi cosa tu abbia combinato nella vita, resti qualcuno di amabile e prezioso ai suoi occhi.
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