GIGI PROIETTI

Istantanee d’autore

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Avrei voluto conoscerlo bene, frequentarlo, rubargli il più possibile; invece ho avuto solo sporadici incontri ma sufficienti per ricavarne questa istantanea che gli dedico con una stima enorme.

Le foto sono “rimediate”, in questo ed in altri pezzi, ma sono giustificato da tanti motivi, sia tecnologici e sia contingenti.

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A livello di bravura tecnica, di “mestiere” è stato davvero una perla del nostro teatro.

Certo ha dimostrato di essere un numero uno anche nel cinema e in Tv, ma il teatro era l’ambiente naturale in cui la sua arte dei dettagli esplodeva nel modo più efficace.

Fu in occasione del mitico “A me gli occhi, please” che lo incontrai la prima volta.

Lui stava provando nello storico Teatro Tenda di piazza Mancini.

Io ero lì per concordare la data di un altro spettacolo con il proprietario Carlo Molfese, che era, a quell’epoca, un grande dominus.

Lui entrò in ufficio, ci presentarono e si sedette aspettando che finissimo di parlare.

Molfese mi stava dicendo di rivederci perché la programmazione dipendeva anche da quanto tempo sarebbe stato in scena Proietti.

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Si rivolse a me dicendo: “Non ho ancora cominciato e già me voi mannà via…?”

Non ricordo cosa risposi ma certamente non qualcosa di intelligente, perché ero emozionatissimo per quell’incontro inaspettato.

Ma presumo di aver colto in quella battuta e nel modo di dirla l’essenza di quel personaggio, di cui fu poi certo in seguito: istintivamente ironico e semplice.

Riuscii comunque a fissare il mio spettacolo ma il suo fece così tante repliche nel corso degli anni che è rimasto un evento unico dell’affabulazione teatrale italiana.

Qualche anno dopo, in una saletta di attesa degli ospiti di un programma TV, gli dissi: “Ovviamente Lei non può ricordarsi ma me lo ricordo bene io…. (e gli raccontai l’episodio del Tenda)”

Con la prontezza di spirito che era la sua dote artistica principale mi rispose: “Ah, allora te avviso quando provo er prossimo spettacolo e me vieni a trovà.

Così lavoro per altri diec’anni…”

Chiacchierando mi rivelò che, paradossalmente, il suo show allora doveva sostituire un altro che era saltato.

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Gli chiesi se il suo istinto comico era innato e l’aveva perfezionato col tempo.

Fui sorpreso quando mi raccontò che lui aveva cominciato come attore di rappresentazioni cosiddette “impegnate”, ermetiche.

Una sera gli capitò di provocare senza volerlo una risata del pubblico ed ebbe una folgorazione.

Capì che avrebbe goduto del suo lavoro se avesse continuato a far ridere.

Riteneva che lo avessero aiutato molto la sua gavetta e la Roma di un tempo.

Aveva archiviato e rielaborato innumerevoli situazioni naturalmente comiche nelle quali si era ritrovato, soprattutto quando agli inizi cantava nei dancing e recitava in astruse rappresentazioni.

Gran parte delle figure che popolano i suoi monologhi sono proprio prese da quelle esperienze.

Come in tutti i grandi rappresentanti della comicità, aveva quel retrogusto di tristezza, che sapeva di nostalgia e di conoscenza della natura umana, spesso misera, piena di difetti e di incongruenze.

Non era difficile leggere in lui una certa amarezza riguardo alla realtà, che avrebbe voluto migliore.

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Un dettaglio che molti avranno notato: questo immenso “comico” nacque il 2 novembre, giorno considerato di mestizia, e morì il 2 novembre.

Come uno sfottò ai luoghi comuni, caratteristica della maggior parte delle sue interpretazioni.

(Foto di proprietà dell’autore)

Giacomo Carlucci

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