QUESTIONE DI LIBRI

L’opinione

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Siete mai entrati nella casa di una persona che non conoscete, ma della quale vorreste capire qualcosa? Se in questo appartamento ci sono dei libri ecco il dettaglio, muto, che vi urlerà parecchio sulla personalità di chi vi apprestate a incontrare.

Una biblioteca rispecchia, infatti, la personalità del suo padrone; fa capire i suoi gusti, le sue tendenze, la sua cultura, la sua incultura, i suoi tic e i suoi hobby.

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Non esiste arredamento più caldo e avvolgente di una lunga libreria, non esiste casa più fredda di una senza. Insomma i libri fanno parte dell’arredamento e ci rappresentano più di un vestito, di un accessorio. Quanto l’educazione di un figlio.

Libri, libri, libri, chi li ama, chi li ignora, chi li colleziona, chi li tiene sul tavolo, in bella evidenza, talvolta solo per far mostra. Questo ultimo tipo è il più pericoloso, ma anche il più individuabile, perché essendo un orecchiante, terrà sul tavolo del salotto spesso qualcosa d’effetto, raramente qualcosa che ha letto.

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“Ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi."

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Ecco una fulminante affermazione tratta Da una lettera a Oskar Pollak di Franz Kafka.

Vero è che un’onda cartacea sommerge un pubblico che paradossalmente sembra allontanarsi sempre più dalla lettura. La ragione ultima di questa disaffezione, al di là di molte altre motivazioni rilevanti, è forse proprio nel monito di Kafka.

Le pagine sono sempre più costellate di banalità, di approssimazione, di superficialità.

Ormai la parola è svalutata dal chiacchiericcio politico e pseudo culturale, sovente volgare e vacuo presente nelle televisioni, nelle radio, nei “social” e nei più moderni contesti della comunicazione.

Octavio Paz, scrittore messicano, premio Nobel per la letteratura nel 1990, affermava che una civiltà inizia a corrompersi quando si corrompe il suo linguaggio. D’altro canto la parola è la spia più nitida della capacità o meno di comunicare. Se essa si inceppa o si imbarbarisce è perché la coscienza è vuota, la mente offuscata, lo spirito indifferente, la vita ingrigita.

E’ triste ascoltare negli uffici, negli autobus, sui treni, nelle scuole, quella cascata di parole volgari, banali, ripetitive, ricalcate sulla stupidità o sui luoghi comuni dei personaggi televisivi, pubblicitari o, comunque, dello spettacolo.

Anche il libro risente pesantemente di questo impoverimento e le sue righe, sovente disinvoltamente mal scritte, non fanno che rimasticare aria.

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Mai come oggi sembra valere il detto ironico dell’introduzione de I Promessi Sposi: “Di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo”.

E’ proprio per questo che è necessario ritornare a quei pochi libri che inquietano la palude della coscienza, che spezzano le incrostazioni dell’esteriorità, che approdano al cuore e all’autenticità; che rigenerano e riqualificano la nostra vita, le nostre relazioni, le nostre convinzioni, così come proponeva Franz Kafka. .

Leggere è sempre cercare di interpretare e di interrogare. In disparte dalle attività e dai ritmi abitudinari, possiamo dimenticare ciò che è presente ai nostri sensi e fissare gli occhi e l’attenzione sullo “sta scritto” fino a uscire quasi da noi stessi (o, meglio, a scendere nelle nostre profondità…): il lettore diviene, anche per chi lo osserva, una icona di interiorità, un’immagine di raccoglimento, un’allusione al viaggio della mente.

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La lettura, di fatto, è una conversazione, un dialogo con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio: è un ricevere la parola di un altro e farla propria, interpretandola nel dialogo della propria intimità.

Sant’Agostino paragonava la scrittura a uno specchio che rivela il lettore a se stesso. Gregorio Magno parlava della “scrittura che cresce assieme al lettore” e Marcel Proust era convinto che la sua opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto non fosse altro che “lo strumento grazie al quale offrire ai lettori il modo di leggere in se stessi”.

Sì, anche e soprattutto nella nostra società dell’immagine, leggere resta operazione di grande umanizzazione, sorprendente nella sua semplicità: non occorrono tecnologie né complicate strumentazioni e nemmeno iniziazioni particolari perché, in fondo, come ricordava il poeta Fernando Pessoa, “l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge”. Così la lettura, questo viaggio intrapreso con le parole dell’altro, diviene un cammino per ritornare al proprio cuore, un itinerario potenzialmente infinito.

Purtroppo la comunicazione contemporanea soggiace ad una legge spietata: quella dell’eccesso.

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Bisogna ampliare, dilatare sempre di più i prodotti: così il giallo lentamente degrada in violenza gratuita, l’erotismo in pornografia, la discussione in rissa, il dissenso in insulto, la critica in aggressione personale e così via.

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Lo scrittore Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, rammentava che il vero artista (ma anche l’uomo saggio) è colui che opera come lo scultore che sottrae e non aggiunge alla materia. Dal blocco di marmo elimina tutto ciò che è superfluo rispetto alla statua che è idealmente celata in quella pietra.

Lo stesso concetto è espresso in modo più immediato da Daniello Bartoli, gesuita ferrarese vissuto nel Seicento, storico e grammatico, che nell’opera L’uomo di lettere difeso ed emendato afferma: “Non è il molto quel che si apprezza, è il buono. I libri sono come le anime, la cui grandezza non si misura dalla mole del corpo, ma dalla nobiltà degli spiriti”.

Non è la grandezza che rileva ma l’interiorità; non è la quantità che dovrebbe imporsi, bensì la qualità; non sono i fronzoli ma la sostanza a tributare valore a una opera o a una persona; non è l’erudizione a dare insegnamenti ma l’avvedutezza che ispira e rischiara la via.

Malgrado ciò, se siamo schietti, a farla da padrone ai nostri giorni è l’esagerazione: oggetto d’invidia è chi possiede tanto, chi prevarica con pensieri, parole, opere ed omissioni, chi grava e incombe con la sua immagine e il successo.

Sarebbe, invece, doveroso ritrovare il gusto della riflessione, la finezza della discrezione, la dignità del contegno morale. Ne guadagneremmo tutti.

Fausto Corsetti

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