SULLA RESPONSABILITA’ INDIVIDUALE - I^PARTE

L’opinione del filosofo

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“Sappiate, miei cari, che ciascuno di noi è colpevole [responsabile] di tutto e per tutti sulla terra; questo è certo, e non soltanto a causa della colpa comune, ma ciascuno individualmente”.

(F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov Padre Zosima)

“Quando si è tutti colpevoli, in fin dei conti nessuno lo è”.

(H.Arendt, Responsabilità collettiva)

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Quando negli anni Settanta Hans Jonas sostenne il principio-responsabilità contro il principio-disperazione e il principio-speranza originati dal culto per il progresso, la radicò nella concezione moderna del soggetto.

Chi voglia mettere a fuoco il concetto non può fare a meno di constatare come esso si situi al centro di una costellazione teorica non meno densa da quella che si dispiega intorno ad altri due pilastri della visione del mondo moderna quali la “persona” e la “libertà”.

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Paul Ricoeur, in uno degli studi preliminari, così definisce la “responsabilità”: “siamo responsabili delle conseguenze delle nostre azioni, ma anche responsabili degli altri, nella misura in cui questi sono a nostro carico o sono affidati alle nostre cure e, eventualmente, molto al di là di questa misura. Al limite siamo responsabili di tutto e di tutti”.

Se la negligenza degli effetti collaterali dell’azione la renderebbe ingiusta e una responsabilità illimitata la renderebbe impossibile, Ricoeur suggerisce la “costruzione di un concetto di responsabilità meno dipendente dall’idea di obbligazione” e più legato alla questione “del rapporto del sé all’insieme dei suoi atti”. La contabilità “morale” di cui parla Ricoeur non impedisce che nelle vite umane i conti non tornino mai totalmente.

Per essere responsabili si deve anzitutto poter rispondere di un cambiamento dello stato di cose nel mondo di cui si sia stati autori o a cui si sia dato un contributo determinante. Si può essere oggettivamente responsabili di un atto, senza essere soggettivamente, intenzionalmente o deliberatamente responsabili di quell’atto, senza avere cioè avuto la possibilità di fare altrimenti, non perché si sia stati determinati o costretti a compiere quell’atto, ma perché non vi era un’alternativa.

Se non esiste una reale alternativa a quel risultato “ambiguo” che consiste nel riconoscimento della finitudine umana e nell’accollare al “giudizio circostanziato” l’onere di rintracciare un punto di equilibrio tra particolare e universale, fatti e imperativi morali, il fatto che lo scarto fra gli effetti voluti e la totalità delle conseguenze dell’azione sia incontrollabile e dipenda dalla saggezza pratica, istruita dalla storia, è segno della finitudine umana.

Se si accetta questa idea, bisogna prendere atto che la responsabilità si dispiega secondo un continuum che va dalla causalità fisica alla riflessività. Si è responsabili di qualcosa agli occhi di qualcuno davanti a un’istanza sanzionatrice che giudica in base a un criterio normativo.

In un contesto postkantiano, dominato dall’antinomia tra la causalità naturale e la causalità libera, ossia la spontaneità, non esiste soluzione a una simile sfida se non quella di “portare al livello riflessivo il fenomeno dell’’io posso’, l’attestazione che l’uomo ha di se stesso”.

La proliferazione del concetto di responsabilità è evidente in autori che hanno portato alle estreme conseguenze alcune premesse del discorso filosofico della modernità. Sartre, nel paragrafo de “L’essere e il nulla” intitolato “Libertà e responsabilità”, sostiene che “l’uomo, essendo condannato a essere libero, porta il peso del mondo tutto intero sulle spalle, è responsabile del mondo e di se stesso in quanto modo d’essere”.

Sartre considera la responsabilità del per-sé come molto grave, perché è per lui che c’è un mondo: “dal momento del mio nascere all’essere, porto il peso del mondo da solo senza che nulla né alcuno possa alleggerirlo…questa responsabilità assoluta non è accettazione, è semplicemente la rivendicazione logica delle conseguenze della nostra libertà” .

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Per Sartre, nel mondo non s’incontra altro che la propria responsabilità, che è l’unica cosa di cui si è responsabili e alla cui presa è impossibile sottrarsi. Per Sartre il senso “banale” di responsabilità consiste proprio nella “coscienza di essere l’autore incontestabile di un avvenimento o di un oggetto”. Ne “L’esistenzialismo è un umanismo”, Sartre afferma: “se veramente l’esistenza precede l’essenza, l’uomo è responsabile di quello che è. Così il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E quando diciamo che l’uomo è responsabile di se stesso, non intendiamo che l’uomo sia responsabile della sua stretta individualità, ma che egli è responsabile di tutti gli uomini”.

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Per Charles Taylor, potremmo dire che il è destinato a sperimentare un eccesso di responsabilità, mentre secondo la contabilità “morale” di cui parla Ricoeur, nelle vite umane i conti non tornano mai totalmente. La stessa idea di un fardello morale spropositato appare anche nel ritratto weberiano di una personalità in grado di “affrontare virilmente il destino” nell’epoca del disincanto, della razionalizzazione, dell’intellettualizzazione e capace di non arretrare di fronte a una “notte polare di fredde tenebre e di stenti”.

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Weber afferma che per fare i conti con l’”esperienza dell’irrazionalità del mondo”, “non conta l’età, bensì lo sguardo addestrato a scrutare senza pregiudizi nelle realtà della vita, la capacità di sopportarle e l’intima maturità di fronte a esse”. Gli stessi concetti vengono espressi nella biografia curata dalla moglie Marianne in cui l’ideale weberiano di probità intellettuale (intellektuelle Redlichkeit) viene descritto in questi termini: “Una volta, a chi gli chiedeva quale fosse per lui il significato della sua scienza, Weber rispose: “Voglio vedere quanto posso resistere” (ich will sehen, wieviel ich aushalten kann).

Che cosa vuole suggerire Weber nel suo “pessimismo eroico”? Nella sua “etica della responsabilità decisionistica”, egli considera suo compito sopportare le antinomie dell’esistenza e, mentre porta all’estremo la propria mancanza di illusioni, ciò malgrado preserva i suoi ideali e la sua stessa capacità di votarsi a essi.

Come aveva osservato Hegel nella “Fenomenologia”, nel concetto moderno di responsabilità è insito il rischio di un’oscillazione tra l’illusione di un controllo assoluto delle proprie azioni, come sottolinea Sartre, e l’enfasi autoassolutoria sulla sorte morale.

Nella dilatazione del concetto di responsabilità si radica la logica dell’azione umana, secondo cui l’armamentario epistemologico moderno rischia di farla collassare. Un effetto collaterale della configurazione della relazione mente/mondo nei termini di una pura frontalità ed estraneità di pensiero è che tutta la sfera “normativa” del senso è destinata a gravare sulle spalle del soggetto, che diventa in un certo senso responsabile - per via empirica o trascendentale - di tutta quella consistente porzione di mondo che ricade nella sfera di competenza della verità, del valore, del significato.

Alla base del trionfo della categoria di responsabilità c’è la polivalenza semantica, per cui siamo responsabili in quanto, essendo persone immerse nella fitta trama delle cause e degli effetti, siamo tenuti a rispondere. Ma di che cosa siamo responsabili? Siamo tenuti a rispondere perché i nostri atti hanno un’efficacia causale sul mondo e perché, entro una certa misura, possiamo renderne conto. C’è un contenuto morale alla base della responsabilità umana.

Siamo alle prese col mondo, ne avvertiamo l’attrito nel nostro vissuto e la resistenza così sperimentata non ha solo l’effetto di renderci passivi, ma puo’ costituire un vero e proprio “empowerment”, e tale campo di forze s’intreccia stabilmente con un insieme di ragioni, che si offre al soggetto agente come un ambito nel contempo di vincoli e iniziative.

Qui, al pari della responsabilità politica, entra in gioco la responsabilità verso di sé, per cui o si è responsabili in toto del proprio sé o non lo si è. La responsività originaria del sé è il contesto a partire dal quale diventa possibile e intelligibile il complicato processo di negoziazione personale e interpersonale, volto all’attribuzione di responsabilità e alla sua assunzione.

Posta in questi termini, la questione filosofica della responsabilità rivela alcune ambiguità teoriche. Pensarla infatti come la forma più originaria di responsabilità non equivale di per sé a concepirla come una forma di responsabilità fondativa alla Sartre: la responsabilità di scegliere se stessi. Il ritratto dell’identità personale suggerisce di concepire la responsabilità come un fenomeno, che può essere assolto a diversi livelli di impegno personale.

Si è responsabili di ciò che si dice, di ciò che si fa o non si fa, delle conseguenze volute e non volute delle proprie azioni, omissioni e negligenze, dei gruppi a cui si appartiene a titolo diverso, di ciò che si è diventati e di ciò che ci si era proposti o ci si propone di diventare, del proprio corpo, del proprio volto, del proprio corredo genetico, delle proprie emozioni, dei propri figli e del mondo che lasciamo loro in eredità, dei propri genitori, del prossimo in senso lato. Questo carico di responsabilità puo’ essere opprimente ed è destinato a diventare insostenibile se il suo peso viene assunto senza mediazioni e non è ripartito, e quindi alleviato, in qualche modo.

Ma come?

La principale conseguenza è che la prima e più basilare strategia di sgravio consiste nell’evitare di vivere la responsabilità di sé come un gesto auto-fondativo, la si dovrebbe invece concepire come il naturale sviluppo di una competenza ordinaria che è presupposta da una miriade di pratiche culturali a cui si viene normalmente introdotti mediante gli strumenti classici della socializzazione primaria.

Seguendo Charles Taylor, potremmo descriverla come l’assunzione personale non di una “scelta radicale”, quanto di un lavoro di articolazione di “ciò che riteniamo importante”, che Hegel avrebbe definito come lo “spirito oggettivo”. Da questo punto di vista, l’iniziativa autonoma dell’individuo che si fa carico dei propri atti e impegni, consiste sempre anche in una serie di atti responsivi nei confronti di sollecitazioni che, pur emergendo all’interno del sé, si presentano anche come realtà esterne a cui ci si deve sforzare di rimanere per quanto possibile fedeli.

Siccome non dipendono in toto dalla propria iniziativa, non pretendono di rappresentare la “falsa promessa di una sicurezza definitiva”. In questo senso, siamo responsabili dei nostri gesti e comportamenti solo nella misura in cui sono l’espressione di un corpo vissuto che non è basata sulla pura spontaneità.

Allo stesso modo siamo responsabili della nostra vita interiore, intellettuale e affettiva solo nella misura in cui essa è il risultato personale di uno sforzo di sintonizzazione e messa a fuoco di una trama di ragioni per agire, credere e sentire con la quale ci familiarizziamo e che esploriamo gradualmente e non controlliamo mai interamente.

Come nell’identità personale, l’appropriazione riflessiva non avviene mai nei confronti della totalità dell’esperienza del sé, ma è subordinata all’esistenza di una trama di ragioni almeno parzialmente indipendente dalla volontà del soggetto, anche la responsabilità non viene mai esercitata a partire da un grado zero dell’esperienza, ma solo inserendosi in un flusso di attribuzioni e assunzioni di responsabilità, a prescindere dall’iniziativa del singolo il quale puo’ arrivare anche a patirla. Riprendendo Ricoeur, nelle vite umane i conti non tornano mai.

(Continua)

Gabriella Bianco

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