ATTRAVERSARE IL DESERTO (I Parte)

I linguaggi artistici: da Kant a Leopardi
Esprimere poeticamente l’infinito, esprimere l’inimmaginabile rende necessario l’elaborazione e l’uso dei linguaggi artistici. Ecco la sfida dell’arte. Se l’infinito segna l’oltre del dicibile e dell’immaginabile, gli esseri umani ne hanno una sete inappagabile e un desiderio senza limiti.
Per Kant, il sentimento del sublime, quintessenza dell’infinito, sarebbe precluso all’arte e soltanto le “idee” potrebbero coglierlo, per la loro proprietà di andare oltre l’immaginazione e la sensibilità. Nell’arte risiederebbe il bello, mentre nella natura sta il sublime che può essere catturato esclusivamente dalla ragione, in quanto “sorgente” delle idee.
Diversamente dal sublime di Kant, in Leopardi il sublime non è sperimentato solo dal pensiero e dalla ragione. Nell’infinito leopardiano l’infinito è mostrato proprio dal limite, che la siepe rappresenta. Lo sterminato spazio è “veduto” proprio oltre il limite delineato dalla siepe. Mentre il poeta si figge nel pensiero, lo travalica. Tutti i sensi sono chiamati a raccolta. Nello spazio infinito oltre la siepe, irrompe il tempo infinito. La vita si intreccia con la morte.
Qui l’infinito leopardiano va oltre il sublime di Kant. Nel naufragio si esperisce l’immensa vita in movimento dell’infinito. Trascinati dagli abissi, non abbiamo più controllo su noi stessi e sul tutto. Nell’infinito naufraghiamo e, naufragando, lo esploriamo, fuori da ogni possesso e da ogni autorità. Nell’infinito leopardiano si disperde l’essere cosmologico e tutto il vivente non umano. Nell’infinito il pensiero annega. Eppure, in Leopardi, l’annegarsi del pensiero non è propriamente esperienza dell’infinito. E’ il naufragare, non l’annegare, la cifra autentica dell’ esperienza dell’infinito.
Tuttavia, nella ricerca leopardiana alcuni nodi non sembrano sciolti. E se l’infinito non fosse che una potente invenzione della nostra immaginazione? Un eccesso di desiderio di infinito produce un eccesso di immaginazione e di simulazione. La forza-immaginazione scade ad una mera simulazione. L’infinito diviene, così, la sorgente e, insieme, la custodia del pessimismo cosmico del poeta.
E tuttavia, l’infinito è anche realtà, non solo immaginazione e desiderio, anzi, prima che desiderio, l’infinito è realtà prima dell’universo. Quando in esso naufraghiamo, non stiamo simulando, anzi, ci affranchiamo dall’ armatura della nostra finitudine, delle nostre ossessioni, delle nostre manie e del nostro desiderio di potenza.
Desiderio di infinito non è desiderio di potenza e di potere. La mancanza di potere e di potenza non produce più angoscia cosmica e non fa più giudicare “matrigna” la natura e “nemico” il destino. La distanza dalla potenza e la critica del potere, anzi, sono esperite come promesse di vita vera, prossimità all’immenso, di cui l’infinito è sinonimo.
Se l’immaginario non è un sostituto del reale, ma una sua componente decisiva, i linguaggi artistici non ci offrono una dimensione altra dal reale, ma ci rimettono in contatto con le nervature del reale che possiamo sperimentare.
L’arte non è una strategia illusionistica, anche se, nella lacerazione schizofrenica tra reale e immaginario, tra arte e linguaggio, tra vita e poesia, il pensiero logico-scientifico travestito di neutralità ed oggettività, finisce per rappresentare se stesso come il nuovo totem e tutto il resto come tabù.
I linguaggi artistici non ci consegnano un mondo più vero del mondo, non sono l’ alter ego né la trasposizione sublime del mondo. Al contrario, i linguaggi artistici ci rendono più cara e preziosa la vita, sottolineandone l’infinità caleidoscopica: dentro di essa affondiamo la mano ed il cuore, la mente e i sensi, la ragione ed i sentimenti. La vita e la natura sono tenere, feroci ed empie: un infinito di tenerezza, ferocia ed empietà.
Ogni passaggio è un passo che ci immette nell’infinito, che ci fa ammutolire e ci allontana dal delirio di potenza o impotenza. Ogni passaggio che ci apre le porte dell’infinito è anche un dono che ci è stato fatto e che ci facciamo. L’infinito come dono: ecco il regalo impensabile e inimmaginabile, dono che diviene vero, se nel cammino solitario ci apriamo agli altri, se dal cammino comune, percorriamo anche il cammino individuale.
I linguaggi artistici li ritroviamo nella distanza infinita che ci separa da noi stessi e dall’altro. E i percorsi cambiano sempre, anche quando sembrano eguali, mutano spazio e tempo, con tutto quello in essi contenuto e riverberato.
Donare
Donare è percorrere distanze, senza smarrire la propria generosità, spendersi gratuitamente, senza sapere perché, colmare separazioni, senza cancellare differenze.
Se per il pessimismo cosmico leopardiano, l’esperienza del differente è un motivo valido per vivere rettamente e con dignità, anche se essa è votata allo scacco, l’esperienza del differente si coniuga come libertà di sé e dell’altro, quando questa libertà è concepita e vissuta come esperienza dell’infinito.
Nell’idea di infinito è ben presente il processo del concatenare che, per i Greci, indicava il comune. Il comune non è la massa anonima, il passante estraneo o la folla silenziosa e terribile. Comunanza non è semplicemente coesione sociale, ma compartecipazione del comune al differente e del differente al comune. È questa compartecipazione che frange la linea di demarcazione Io/Altro, scoprendola labile e infondata.
Ciò che è comune è proprio la differenza. La concatenazione delle differenze è ora il comune. Nella concatenazione Io e Altro si distinguono, ma compartecipano. Essi si distinguono non sottraendosi alla relazione, ma partecipandovi. L’esistenza dell’Io non si sprigiona, allorché l’Altro viene tolto (e viceversa), ma quando nel comune si esprimono entrambi.
Diversamente dalle premesse leopardiani, la vita non appare come un immenso carcere buio, ma luce e tenebra, urlo e silenzio, dolore e gioia si compenetrano e coesistono nella lacerazione tra reale e immaginario, tra arte e linguaggio, tra vita e poesia. Ogni limite è una porta e un passo che ci immette nell’infinito. Ogni passaggio che ci apre le porte dell’infinito è anche un dono che ci è stato fatto e che ci facciamo.
Ma è anche un dono che dobbiamo ripetere sempre. L’infinito come dono: ecco il regalo impensabile e inimmaginabile. I linguaggi artistici li ritroviamo nella distanza infinita che ci separa da noi stessi e dall’altro. E i percorsi cambiano sempre, anche quando sembrano eguali, mutano spazio e tempo, con tutto quello che in essi è contenuto, evocato, richiamato e riverberato.
Donare è percorrere distanze, senza smarrire la propria generosità, spendersi gratuitamente, senza sapere perché, colmare separazioni, senza cancellare differenze. Essi si distinguono non sottraendosi alla relazione, ma partecipandovi. I linguaggi artistici li ritroviamo qui, nella distanza infinita che ci separa da noi stessi e dall’altro.
Già Heidegger aveva indicato queste prospettive, ma poi, rinchiudendole nell’ontologia dell’essere, finisce per minimizzare e svalorizzare il concatenare ed il compartecipare, rimanendo prigioniero della contrapposizione essere/non-essere. I processi della concatenazione e della compartecipazione ci aiutano ad andare oltre l’ontologia heideggeriana, perché interpretano il concetto di comune come luogo delle differenze.
La nozione di comune supera anche il concetto di “essere comune” - Gemeinwesen - formulato dal giovane Marx, per il quale la prospettiva destinale dell’uomo è data dalla comunità felice degli eguali, all’interno di cui l’uomo riconquista la sua dimensione originaria di “ente generico” . Qui l’uomo risolve in sé l’intero genere umano e smarrisce la sua costitutiva individualità, in cui il comune può * ad essere casa delle differenze.
Nel concatenare e nel compartecipare, ognuno - Io e Altro, il comune - non smette mai di porre in gioco se stesso, esperimentando l’infinito e l’infinita varietà del mondo. Così, lo stupore e l’ignoto entrano nel reale e lo attraversano. Sull’orizzonte dell’estremo limite tutto tace e tutto perde forma. Nella mancanza di parole e di forme rinunciamo alle nostre pretese di possesso del mondo e delle cose. Mentre nel silenzio e nel vuoto dell’infinito rinunciamo alla sovranità sul mondo, ci facciamo parte del mondo. All’estremo di ciò che non ha più parola e che non ha più forma sta la nostra ricerca di parole e forme.
Questo cercano i linguaggi artistici, invitandoci ad attraversare le celle della nostra solitudine e della nostra collettiva sofferenza. La letteratura e l’arte cercano di squarciare questo limite, mettendo l’esperienza umana a contatto con l’oscuro del potere, oppure con la dionisiaca sperimentazione della libertà. L’arte, in tutte le sue forme di espressione, ha sempre trattato il terribile arcano che contrassegna l’esistenza umana e quella del mondo.
E’ il desiderio di umanità che tenta di sospingere la tecnica oltre la sua contingenza. In questo modo, l’umanità spera di evitare la decadenza del mondo. Superare i confini della tecnica ha il senso precipuo di scongiurare la fine del mondo, superando la fede illimitata nelle mirabili sorti del progresso.
Nell’angoscia dell’esperienza del tempo, utopia e distopia trovano un vitale punto di convergenza nel sentimento del tempo come dolorosa esperienza di decadimento. Solo la potenza della forza immaginativa e inventiva eccede il potere della tecnica. I poteri dei sentimenti travalicano il potere della tecnica.
(Continua)
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