STORIE DI POLITICA TRA PASSIONE E DISSENSO
Analogie tra gli anni ’90 e i tempi moderni. L’esasperazione del popolo e la crisi ideologica. Il nuovo è già presente

Ero ragazzina quando buona parte dell’Italia iniziava a ribellarsi alle logiche della prima Repubblica. Lo studio di Seneca aveva lasciato nella mia mente una frase, tratta dal "De Tranquillitate Animi", nono libro dei dialoghi: “Quanto piacere possiede quella schiettezza sincera e priva di ornamenti che non si serve di nulla per coprire la propria indole”. Eh si, la mia è stata tra le ultime generazioni fortunate a fruire della “Scuola formativa” che già dalle medie dispensava cultura e insegnava a pensare, avvalendosi della propria testa. Una scuola inammissibile nelle logiche dei tempi moderni. Già all’epoca si era deciso di annientarla perché un popolo pensante è un popolo pericoloso. Ma anche un popolo ignorante, che non impara a sublimare i moti emozionali in concetti intellettuali, lo è. Perché è un popolo che in sé reca il presupposto della ribellione quando, per istinto, percepisce di non poter fidarsi.
È ciò che accadde nel ’91. Pochi mesi mi separavano dalla maggiore età. La scuola superiore era l’athanor della politica in cui lentamente lo spirito di contestazione, proprio dell’adolescenza, si fondeva alla capacità di ragionare, sviluppata grazie all’elaborazione del nozionismo.
Si matura così. In virtù di quella scintilla, che come il soffio mercuriale, s’insinua dall’alto del Sapere, accendendo in ciascuno il fuoco della Conoscenza.
Correva il mese di giugno quando il referendum promosso da Segni per ridurre a una sola le preferenze nelle elezioni per la Camera, sferrò il primo colpo al regime partitocratico.L’obiettivo era quello di evitare le cordate: “Tu dai a me un certo numero di elettori, io lo dò a te”.
Impressa nella storia è rimasta la frase di Craxi: “Tutti al mare”. La maggior parte dell’establishment politico puntava al non raggiungimento del quorum.
Ma quel 9 giugno a votare andò il 62,5% degli aventi diritto e il 95,6% si pronunciò in favore della preferenza unica.
“Probabilmente una gran parte dell’elettorato non aveva compreso il significato del voto. Aveva capito una sola cosa, che i capi dei partiti tradizionali di Governo, gli Andreotti, i Forlani, i Craxi, i Gava, la preferenza unica non la potevano soffrire. Poiché non piaceva a loro doveva essere una cosa buona e meritava un sì entusiastico” (Montanelli, 1993).
Una discreta incidenza della popolazione apparteneva alla classe operaia. Qualcuno andava alla scuola serale. Erano gli anni della Lega che al grido di “Roma ladrona” divenne il quarto partito. Dell’uscita di senno – come disse Vespa nel ‘98 – di Cossiga, tradito da una Dc che non aveva avuto remore nel tirar fuori la questione di Gladio. Del crollo del blocco sovietico. Della corruzione.
Chi non ricorda la flagrante mazzetta del socialista Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio?Erano gli anni dall’omicidio di Salvo Lima, freddato il 12 marzo del ’92 a Palermo. Uomo di punta della corrente andreottiana “eletto – come scrisse nel ’93 Galli – nel Parlamento europeo, dopo essersi defilato da quello italiano, anche per le costanti accuse di collusione con la mafia”.Erano gli anni del disorientamento, delle annunciate e poi congelate dimissioni di Forlani, di quelle minacciate da Cossiga, allora presidente della Repubblica, indignato dalla nomina di Scalfaro alla guida della Camera.
Si era reso emblema il capo dello Stato, captando i primi malumori e prevedendo ciò che di lì a poco Tangentopoli avrebbe scatenato, di quella ribellione popolare che stava montando e che lui stesso aveva fomentato, accusando di mediocrità, parassitismo e ladrocinio, la classe dirigente.
Quanto succedeva allora lo rivedo in oggi. Con la differenza – mi ricorre il dovere morale di dirlo – che all’epoca si era difronte a personaggi, nel bene o nel male, di più elevato spessore.
Eppure mentre noi, adolescenti degli anni ’90, manifestavamo in centro affinché non si toccasse il diritto allo studio, per cui i nostri giovani padri tanto avevano lottato, contestavamo un governo che poco sembrava tutelare la sua gente.
Guardo a quegli anni con nostalgia, rimpiangendo la speranza di futuro che infiammava le piazze e tratteggiava nell’immaginazione di tanti ragazzi accovacciati sui gradini della scuola, le linee di un avvenire brillante, intriso di politica. Perché la nostra è forse l’ultima generazione che della politica non può fare a meno. E che non accetta passivamente nessun tentativo, calato dall’alto, di sopprimerla nel mero tecnicismo.
Perché in quella parola c’è un mondo. Il futuro disegnato nel sogno comune di milioni di persone. C’è il confronto tra idee diverse senza le quali non potrebbe esistere l’equilibrio. Ci sono i concetti della vera economia. Quella tesa alla stabilità, all’equa ripartizione tra le funzioni di distribuzione, scambio e consumo.Il perfezionismo tecnico è funzionale solo se animato dalla spinta propulsiva sociale, a cui dev’essere subordinato. Pena la soppressione del principio di sovranità popolare, quale fonte di legittimazione del potere statale in quanto titolare, attraverso lo strumento della democrazia diretta, della facoltà di decidere l’indirizzo del Paese.
Oggi è quella spinta che dobbiamo ritrovare, intrisa della capacità – come spesso scrivo – di preconizzare, per plasmarlo, il domani.
Ma per fare questo c’è bisogno di Conoscenza. Perché nell’ignoranza si cela il virus della disfatta. Perché l’assenza di cultura genera l’oscurantismo distruttivo, al pari della cupidigia.
Dagli anni di “F.A.C.” (Fanfani, Andreotti, Craxi) ad oggi la via è stata tutta in declino.
Così i combattenti dell’epoca sono i combattenti di oggi. Esausti, ma aggressivi. Esasperati dall’impoverimento che anche il governo Renzi, dietro la promessa di riscatto, ha incrementato. Preoccupati per lo scenario calamitoso che asfissia ogni ottimismo. Avviliti dalla goffaggine di un “Partito dello Stato” che per occultare l’inoccultabile, sposta l’attenzione su altri temi, quali le vicende romane.Ha fatto notizia il botta e risposta tra premier e sindaco. Matteo Renzi dalla Scuola di formazione politica, dove si dovrebbe parlare di visione e progettualità, ha detto:
“La svolta della Raggi è dare la gestione dei rifiuti a un donna collegata totalmente a Mafia Capitale, a quelli che c’erano prima".
Parole dure. Mattoni di una strategia comunicativa errata che inevitabilmente restituirà fango al mittente da parte popolare.
Il silenzio di Raggi sull’iscrizione di Paola Muraro nel Registro degli Indagati è stato sicuramente irragionevole. Inopportuno per chi a gamba tesa è entrata, sotto lo slogan della “trasparenza”, in un’istituzione.
Ma non è forse alla Magistratura che spetta di accertare eventuali connivenze? Tirare in ballo Mafia Capitale alla luce delle evidenze giudiziarie che hanno portato a galla la sconcertante trasversalità, toccando esponenti di destra e sinistra, è sconveniente.
“Affari con Mafia Capitale? Mica siamo il Pd – ha contrattaccato Raggi -. I cittadini sanno che quel sistema l’hanno creato loro. Noi lo combattiamo […] Il premier quando è in difficoltà - ultimamente gli capita spesso - prova a distogliere l’attenzione e a cambiare argomento. Forse è nervoso perché si avvicina la data del referendum sulle finte riforme. E i confronti in tv lo vedono in grossa difficoltà. Piuttosto si concentri sul disastro economico del governo, sui dati della disoccupazione giovanile, sulla fallimentare politica estera, sull’emergenza migranti. Buon Lavoro”.
Polemica boomerang per entrambi. Se al presidente del Consiglio ha fatto incassare la querela dell’assessora, alla sindaca ha portato quella del PD “per le dichiarazioni diffamatorie” nelle quali lo ha accostato “alle vicende di Mafia Capitale”.
La politica dei tempi moderni, l’abbiamo imparato, è fatta anche di questo.
Ma tornerebbe utile, di tanto in tanto, rispolverare il passato. Se Renzi avesse pensato a quegli anni ’90, agli effetti che sortirono gli insulti vomitati contro la Lega di Bossi che allora incarnava l’”anti-sistema”, forse si sarebbe trattenuto.
Viviamo, oggi come allora, la stessa fase di dissenso. A nulla è valso lo sforzo di trasformare l’istruzione, sopprimendo o limitando nella didattica, le materie che da sempre insegnano a pensare.
Perché quando l’insofferenza si manifesta – l’invito ad andare al mare di Craxi docet - l’istinto porta a fare il contrario di ciò che il sistema dice.
Se allora la Lega non aveva superato la quarta posizione, oggi il Movimento è in lizza per la prima. Dal PD lo dividerebbe un 2,2% secondo Index Research e uno scarso 4,9% secondo SWG.
Partito dello Stato contro l’”anti”.
Perciò, indipendentemente dalle critiche, legittimamente mosse, nel Movimento - e solo in esso – va riposto l’auspicio di invertire la tendenza.
Non che sarà il futuro, almeno nel suo attuale assetto, ma quale ponte gettato verso il “nuovo”, in esso va colta l’essenza del cambiamento.
Mentre Matteo Renzi ha spogliato il suo partito dell’identità progressista, togliendo alla destra la sua ragion d’essere, il M5S, che al modello inglese ha sempre guardato con simpatia, sta captando nel presente la necessità di una politica protezionistica, pur sforzandosi di non darsi un colore. Almeno per adesso.E allora se al Movimento si può dar la colpa di un’incontrovertibile inesperienza, non si potrà – e non si può – tacciarlo di opacità. Perché a guardarlo con la giusta atarassia, “... quella schiettezza sincera e priva di ornamenti che non si serve di nulla per coprire la propria indole” io inizio a vederla.
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