Le otto montagne

È uscito nei giorni scorsi “Le otto montagne”, romanzo di Paolo Cognetti edito da Einaudi, già definito “classico”.

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Ci sono due tipi di persone. Quelle che scalano otto montagne, e quelle che ne scalano una sola. Al centro del mondo c’è un monte altissimo, il monte Sumeru, e intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?

cms_4966/2.jpgLe otto montagne è un breve romanzo, uscito l’ 8 novembre, scritto da Paolo Cognetti ed edito da Einaudi. Alla Fiera del libro di Francoforte, il mese scorso, sono stati venduti i diritti per la traduzione in 30 lingue.Giornalisti autorevoli parlano già di un classico. C’è chi si chiede legittimamente come si fa a definire classico un libro che è uscito ieri.L’autore, Paolo Cognetti, non può che riderne. Una cosa è certa però: è un libro che val la pena di leggere e regalare.Pietro Guasti ha un padre, Giovanni, di cui conosce soprattutto la rabbia e i silenzi, quando torna da lavoro. Con sua madre parla, è sempre stata una cosa naturale. La montagna ha unito i suoi genitori; in montagna, dopo averlo conosciuto veramente, ha voltato le spalle a suo padre, e in montagna torna a seppellirlo. Lì trova la sua eredità. E’ Bruno, che la montagna non l’ha mai lasciata. Ha visto una volta Milano (troppa gente), e una volta il mare (un grande lago). Si sono conosciuti da bambini, si sono ritrovati dopo vent’anni, sempre in montagna.

Pietro e Bruno vanno col papà sul ghiacciaio. Il ghiacciaio è l’unico luogo dove l’uomo trovi pace. A tremila metri, Pietro sta troppo male per andare avanti, vomita sul ghiaccio. Il padre è spaventato, sembra vederlo per la prima volta da anni, come un fantasma. Bruno è lì, lui sarebbe andato avanti. Da grande vuole fare il montanaro. A un certo punto lo sai, dice: ci sono alcune cose che puoi fare, altre che semplicemente non puoi. Non solo la montagna è il suo desiderio, non ha scelta. E sceglierà la montagna fino alla fine, più dell’amore di una donna, più del suo amore paterno. Bruno desidera la sepoltura celeste, finire nella pancia dei corvi. Fino a una certa età, da giovane, puoi scegliere; dopo no.Quand’era giovane, la mamma di Pietro voleva portare Bruno con sé a Milano, in città, per farlo studiare. Che andava bene per sua madre, la strega del paese, e gli zii con cui vivevano i due, ma un giorno arrivò suo padre, l’ubriacone, a reclamarlo. Le cose potevano andare diversamente. Ma non dovevano. Bruno lo accetta subito. Cresce in fretta. Porta le mucche al pascolo da quando ha dieci anni e sa già fare il formaggio. Bruno cresce in fretta, costruisce, abbandona; riconosce la sua strada molto presto. Non desidera altro. Ci andrà a sbattere. Milano non era nei piani. Chi avrà ragione? Il destino.Un altro che va di corsa è Giovanni Guasti, il papà di Pietro. La sola pace che conosca è nel ghiacciaio, dove si chiude il cerchio tra passato e futuro: il ghiaccio vetusto, l’acqua neonata che sgorga. Lì sopra, il sole non scioglie la neve, che si accumula ogni anno, strato su strato; fino a quando? Ere fa. Il passato è intatto, lì sopra, e si scioglie poco a poco. Giovanni Guasti è un tipo solitario.

Quando Pietro gli volta le spalle, Bruno prende il suo posto. Si inventa un figlio che gli somigli, che lo ascolti, che gli stia accanto. Si rivede in quel figlio, orfano come lui, si rivede nel suo destino. Non c’è ancora una donna nella sua vita, ma è questione di tempo. Nel conflitto madre-padre, è lei a vincere. E’ alla madre che Bruno somiglia, anche se è il padre a determinare chi sarà. Lei è l’indipendenza. Lei è la strega, lui, Bruno, è il montanaro e non desidera altro. Bruno è una pianta, stessa natura di sua madre, il padre è il bastone contro cui cresce.Anche Pietro ha un bastone. Ci lega contro con dello spago un alberello esile e contorto, cresciuto con poca luce, all’ombra di vecchie macerie, moribondo, di cui si prende gioco il vento; Pietro pianta il bastone ben saldo di fianco alla creatura. Bruno dice che il pino cembro è un albero strano. Forte per crescere dove cresce e debole appena lo metti da un’altra parte. Ogni volta che c’ha provato è andata male. Ma se ci credi, il pino cembro è un portafortuna.

Quando lui lo pianta, il padre di Pietro è già morto. Pietro gli scriverà un epitaffio. E’ nel ricordo il più bel rifugio. Il passato può passare un’altra volta?, chiede Giovanni a Pietro bambino. Sceglie una metafora, quella del torrente. Dov’è il futuro, a monte del torrente o a valle? A valle. Sbagliato. Le cose nuove arrivano dall’alto. Il passato può passare un’altra volta? Sì, nell’acqua del torrente. Passa e ripassa continuamente sotto nuove forme, senza recare traccia di ciò che era. Il presente è il passato sotto un altro aspetto, dopo nuove trasformazioni. La vita di Pietro scorre nel letto dello fiume che suo padre ha conosciuto prima di lui. La montagna, il larice, il cembro, il mondo minerale della montagna… sono solo tappe della trasformazione. La vita scorre tra quel mondo e il nostro, e tra una persona e l’altra.

Anche il libro si trasforma, e non c’è traccia di nostalgia. La speranza nascente della prima parte si trasforma nelle batoste della seconda. La trasformazione non è brusca, improvvisa, ma è netta. Le tracce della prima sono solo un ricordo nella seconda, che lascia presto il passo alla terza. Restano solo i ricordi con cui sopravvivere. E arrivano come frammenti sospesi sulla corrente.

E’ una scrittura dove ogni frase reca traccia della precedente. Dove l’acqua scorre una pietra dopo l’altra. Le frasi sono brevi, le parole corte. Mutano, apparentemente senza ripetersi, e scivolano via. L’unica cosa che dura è la regola, anche per le parole, e questa regola è la musicalità.

E’ anche una storia di fratelli, in cui si vive più di ricordi che di parole, in cui non si parla diretto, altrimenti nascono gli scontri peggiori. Ognuno dei due ha conosciuto un genitore diverso, con pochi tratti in comune. I genitori sono come delle grucce: hanno una funzione, ma non hanno nessuna storia. Per questo il rapporto con loro ha una doppia natura, una delle quali resta sepolta a lungo dalla neve. Ogni figlio conosce un genitore diverso, quello sbagliato. E neanche un fratello può opporsi al destino da cui l’altro è attratto irresistibilmente e inspiegabilmente, in modo assurdo. Probabilmente è vero che esistono due tipi di persone, quelli che salgono su una sola montagna e quelli che devono vederne altre otto. Chi avrà imparato di più? L’unico modo di saperlo è vivere due vite.

Passano le stagioni, ogni volta diverse, ognuna col suo carico di ricordi che si sciolgono al sole e scorrono nel fiume, che è sempre nuovo e sempre lo stesso. Anche il sole è sempre lo stesso e cambia immagine. Durano solo le regole, a cui è impossibile attingere, come una abisso troppo profondo. Quello che fa lo scrittore è tendere un filo sopra l’abisso e popolarlo di torrenti, montagne, ghiacciai preistorici, cespugli di rododendri, e anche qualche albero di rododendro, trai larici e il pino cembro, il piccolo pino cembro che Pietro ha piantato e che non si sa che fine farà: ce lo dirà un prossimo inverno. Tra questo, Cognetti ci mette un uomo che vive come se fosse in rissa col mondo intero, ripudiato due volte da quattro genitori diversi. E’ un orfano, e questa è una storia di orfani. La moglie, come fanno alcune, ha abbandonato tutto per lui, ed è stata ripudiata anche lei. Marito e moglie trovano pace in un luogo disabitato lontano da casa. Lì ognuno segue la propria vocazione: lui la solitudine dei ricordi, lei la cura degli orfani.

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L’altro orfano è Bruno. A dodici anni sta per lasciare la montagna, ma poi suo padre lo ferma. Le donne soltanto sembrano sapere che il percorso del fiume può deviare; gli uomini costruiscono dighe. Ma i figli accettano questa eredità. Perché se non lo fanno non possono andare avanti. E forse le madri sanno anche questo. E col tempo lo capiscono anche i figli, forse. Ai padri solo la diga interessa; poi, se campano abbastanza a lungo, se la dimenticano. Se hanno un pezzetto d’anima femminile, in fondo l’hanno sempre saputo che sarebbe andata così; se non lo capiscono, ma campano abbastanza a lungo, alzano le mani comunque. Se non fanno in tempo, ognuno si dà le sue risposte.

Il pino cembro che Pietro ha piantato è ancora lì. A Pietro sembra esile e contorto, in balia degli elementi. Supera un inverno dopo l’altro, ma non sembra più robusto né in salute di quando l’ha messo in terra.Pietro diventerà padre? Sembra di no. Ma probabilmente sì. Se lo desidererà. Probabilmente sì.

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