Intervista a Luca Zabbini

Il poliedrico artista emiliano a 33 anni appena compiuti si conferma tra i compositori più eclettici e interessanti del panorama musicale internazionale

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Luca Zabbini, fondatore e frontman dei Barock Project, è un ragazzo di straordinario talento, venuto su a pane e musica, tanto nella sua famiglia si masticavano melodie. E con papà flautista, nonno pianista e zio batterista, non poteva essere altrimenti. Officina perfetta per sviluppare l’innato talento dell’“Orecchio Assoluto”, la capacità di riconoscere gruppi di note eseguite contemporaneamente. Luca è così fin da bambino, mostra segni, attitudini e a quattro anni viene iniziato all’Arte musicale. Grande la sua capacità di comporre e improvvisare, spaziando dalle matrici jazz, con tocchi di blues, al rock sinfonico progressivo. Un musicista poliedrico, non collocabile in un ristretto recinto di genere, capace di suonare alla perfezione diversi strumenti: il basso, la chitarra, il piano, che più degli altri lo rappresenta. La tastiera è un tappeto creativo di scale emozionali. Sua “guida musicale”, il compianto Keith Emerson, probabilmente il più grande keyboard player di sempre. L’amore per la musica classica, con un certo riguardo nei confronti di Bach, è tale da portarlo a rielaborare il rock progressive degli anni ’70, dal quale ha tratto ispirazione per quello che nel 2003 sarà il compimento di uno dei suoi più ambiti progetti: la creazione del gruppo “Barock Project”, il cui DNA racchiude la musica rock-sinfonica dal “sapore barocco” in una struttura tipica del brano contemporaneo. Tante sono le esperienze acquisite dal Maestro che spaziano dalla composizione all’insegnamento. Una parabola in continua ascesa a beneficio di tutti i fruitori di buona musica, quella che riesce a farti far pace col “circostante” e soprattutto col tuo IO.

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Con Luca parliamo dell’ultima fatica discografica, “Detachment”, quinto titolo in studio, che introduce la band emiliana nel secondo decennio di storia. Tredici tracce, 75 minuti di suoni armoniosamente combinati tra loro, in un costrutto emozionale vibrante, naturale evoluzione del precedente “Skyline”.

Un punto di svolta, spartiacque verso nuovi orizzonti musicali.

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Luca, di cosa parla il nuovo disco “Detachment”? Qual è il concetto generale, se ce n’è uno?

Detachment tratta sostanzialmente le fasi più importanti del distacco, quello emotivo ma anche quello fisico. Quel distacco che può essere dovuto all’abbandono di un luogo o da un oggetto a noi caro e che inizialmente ci fa tanto soffrire, per poi farci riflettere.Il nostro cervello entra in uno stato di autoprotezione e salvaguardia e, dopo le fasi della disperazione, dell’incomprensione, della rabbia e del senso di colpa, arriva all’accettazione, cominciando a farci vedere tutto quanto sotto un’altra prospettiva. In poche parole, dopo il dolore, cresciamo e impariamoautomaticamente ad essere più saggi, ripercorrendo gli eventi in maniera più obiettiva e con uno spirito critico lontano dal distruttivo.Questa è la filosofia della trama che percorre i brani di Detachment.

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Com’è nato?

Non appena è uscito ’Skyline’, il nostro disco precedente, gli eventi hanno fatto sì che io mi rimettessi subito all’opera a scrivere nuovo materiale, ero parecchio stimolato e nel mood.Così, come è successo anche con gli altri dischi, ho iniziato a registrare le demo dei brani nel mio studio casalingo, spesso servendomi solamente di una chitarra acustica.Questa volta sono usciti di getto, senza troppa meditazione. Lo step successivo è sempre quello di presentare le demo ai ragazzi, sentire che ne pensano e accogliere le loro idee. Talvolta alcune si sono sviluppate in delle ’jam’ in sala prove.Il processo creativo di Detachment, per quanto riguarda gli sviluppi dei brani che avevo già abbozzato, è stato abbastanza divertente e stimolante.

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La copertina è particolare. Io almeno l’ho trovata significativa. Ce la racconti?

Avevo visto una bozza di questo ritratto durante la lavorazione del disco.
Mi era piaciuto, sentivo che si sposava bene con i temi e le storie dei brani, specialmente il particolare delle foglie morte sulla ragazza. Tanto che ho scelto di prenderlo come simbolo di Detachment, il distacco appunto di una foglia dal proprio albero.

Com’è avvenuta la collaborazione con Peter Jones?

È nata casualmente. Il nostro manager, Claudio, è rimasto affascinato da questo artista inglese e ha pensato di connetterci con lui per questa collaborazione.

Parlaci brevemente dei musicisti della band

Al momento i musicisti della band, eccetto il sottoscritto, sono tutti nuovi.
Questo perchè anche Mazzuoccolo ed Ombelli hanno scelto di percorrere una strada lavorativa differente, andando a suonare musica leggera nelle navi da crociera. Di conseguenza mi sono ritrovato costretto a dover cercare nuovi musicisti e fare lunghe ed estenuanti audizioni, per altro dovendo bloccare tutta la macchina Barock. Nell’estate del 2016 la nuova line-up è stata completata.Alex Mari (voce) è un ottimo cantante, molto preparato dal punto di vista tecnico e con una bella estensione sui registri acuti. E’ inoltre una piacevole persona sia dentro che fuori dal palcoscenico. Francesco Caliendo (basso) è un giovane e solido bassista, tecnicamente preparato e incredibilmente metodico. Con lui avevo già lavorato alcuni anni prima. Andy Bartolucci (batteria) e Giacomo Anselmi (chitarra) sono le ultime new-entry della band. Sono entrambi musicisti professionisti e persone squisite con cui poter lavorare.

Il vostro set dal vivo quali brani comprende?

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Il set è incentrato sui nostri brani più incisivi. Sicuramente vogliamo stupire, divertirci e divertire il pubblico, cercando di toccare un po’ gli step più importanti dei nostri dischi a partire dal primo.

Suoni anche la chitarra nel disco. Lo fai anche dal vivo?

Certo. Adoro suonare la chitarra acustica e molti dei nuovi brani sono stati proprio composti con essa. E’ comunque uno strumento ’estraneo’ per me, non la suono con la stessa padronanza con cui suono il pianoforte, strumento con il quale sono nato e cresciuto. Ma forse proprio per questo, comporre alla chitarra mi stimola nel dare priorità alle parti vocali e melodiche. Ho meno distrazioni virtuosistiche, mentre sul piano non riesco mai a stare fermo con le mani! Per questo la chitarra mi permette composizioni con una forte identità melodico-vocale. La suono anche sul palco, specialmente quando eseguiamo i brani dell’ultimo disco.

Di recente, i grandi nomi del prog, Chris Squire, Keith Emerson, Greg Lake e John Wetton, sono scomparsi. Una grande perdita. Non trovi?

E’ stato un anno veramente triste da questo punto di vista. Dobbiamo comunque pensare che, anche se è brutto da ammettere, questo è il momento nel quale dobbiamo prepararci a salutare quella generazione che ci ha lasciato tutto questo inestimabile patrimonio musicale. Forse è il momento giusto per pensare che ora tocca a tutti noi portare avanti quel tipo di idea, evitando però di riproporre lo stesso sound. Dobbiamo portare avanti quel concetto di musica che avevano loro negli anni ’60 e ’70, proiettandolo nel nostro tempo. E’ questa la parte difficile, ma anche quella più bella e stimolante!

Qual è il tuo modello preferito di pianoforte?

Credo che uno Steinway sia imbattibile. Quando lo suoni, sembra che diventi magicamente il prolungamento fisico delle tue mani. Sono anche un grandissimo fan dei Yamaha, specialmente la serie C. Davvero degli ottimi pianoforti, sia dal punto di vista sonoro, meccanico e di feeling sulla tastiera. Mi sembra di riuscirci a suonare di tutto lì sopra.

Massimo Lupi

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