SIRIA, IDLIB. LA STRAGE DEGLI INNOCENTI. PERCHÉ?
Perché Assad a un passo dalla vittoria, avrebbe dovuto colpire col gas la popolazione?

È successo giovedì notte: gli Stati Uniti hanno lanciato, da due navi americane di stanza nel Mediterraneo, 59 missili cruise “Tomahawk” sulla base da cui si presume sia partito l’attacco chimico destinato alla provincia di Idlib.
"Nessun bambino dovrebbe soffrire”, parole sulle quali il mondo non ha potuto che trovarsi d’accordo, stretto tra l’indignazione e la misericordia. Trenta creature sono spirate, assieme a venti donne e trentasei uomini, tra gli spasmi delle convulsioni e la morsa della paralisi. Immagini terribili hanno fatto il giro del web, recrudescenti al punto di scatenare un intervento. Una visione romantica se la guerra fosse ispirata da alti ideali. Ma non è così. Nel conflitto siriano – lo ripeteremo fino alla nausea – si cela il fallimento dell’umanità che non ha saputo coniugare, come dovrebbe avvenire in un paradigma civile e funzionante, l’interesse al bene comune. È questo l’obiettivo che ogni politica oggi dovrebbe perseguire. Le istituzioni tutte si sono schierate con Trump, ultima l’Europa che ha giudicato proporzionato l’attacco “contro un crimine di guerra – ha dichiarato il premier Paolo Gentiloni - il cui responsabile è il regime di Assad”. “Inaccettabile accusare qualcuno finché non viene condotta una indagine internazionale completa e imparziale” aveva detto Putin a Netanyahu nel corso di un colloquio telefonico. Ma in tutta risposta Israele, per bocca del ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, ha dichiarato in un’intervista al giornale Yediot Ahronot che "i due attacchi avvenuti a Idlib, quello chimico omicida sui civili e quello all’ospedale locale, sono stati condotti su ordine diretto e dietro progettazione del presidente siriano Bashar al Assad, mediante aerei da combattimento siriani”. Nessun dubbio nemmeno per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan: "Ha ucciso 150 civili. Allah li vendicherà. Anche noi faremo la nostra parte”. A qualche ora dall’accaduto il generale maggiore russo Igor Konashenkov, aveva spiegato che a sprigionare la nube tossica era stata l’esplosione di un arsenale in mano all’ex Fronte al Nusra, colpito da un aereo di Damasco. Non vi sarebbe stata alcuna volontà di eseguire un attacco chimico dunque. L’opinione pubblica la pensa però diversamente. Ma noi torniamo per un attimo al 2 luglio 2014, a quando Gioia Tauro tirò un sospiro di sollievo per un carico di veleni che, arrivato dalla Siria, stava lasciando finalmente la costa. Erano le armi chimiche di Assad, trasbordate dalla nave danese Ark Futura a quella americana Cape Ray. Erano dirette verso le acque internazionali dove, sotto l’occhio attento degli ispettori Opac, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, sarebbero state neutralizzate.
La consegna fu decisa dopo che a Goutha - est di Damasco - il 12 agosto del 2013 per la prima volta vennero usate armi chimiche: morirono 1.400 persone, fra cui diversi bambini. Gli Stati Uniti minacciarono un attacco, ritenendo Assad responsabile. Putin mediò per scongiurarlo. Il prezzo, pur in assenza di prove a conferma delle sue responsabilità, fu l’arsenale. Certo, Assad avrebbe potuto mentire, consegnando solo una parte delle sue armi e tenendone magari alcune nascoste. Ma non certo nei pressi di Khan Sheikhun perché, se è coerente la versione di Konashenkov, quell’area è in mano ai qaedisti e a Fatah al Sham. Il regime siriano anche stavolta ha respinto con forza ogni accusa, negando da subito il suo coinvolgimento. Viene naturale chiedersi se Assad oggi sia ancora in grado di produrre sostanze letali, se vi siano ancor nei territori da lui controllati le infrastrutture necessarie. Stesso discorso vale per i ribelli che sappiamo ridotti a gruppi sparuti sull’orlo della definitiva sconfitta. Che il materiale chimico sia arrivato da fuori? Una pista sicuramente interessante da approfondire, dopo aver chiarito con esattezza la dinamica dell’attacco. In questa vicenda colpisce invece la certezza della responsabilità di Assad, punita prima dell’istituzione di un’asettica commissione d’inchiesta.
Che Trump avesse le prove della sua colpevolezza? Può darsi. Troverebbe giustificazione in questo il suo repentino cambio di idea. A qualche ora dall’accaduto aveva detto che Bashar al Assad non era il problema principale. “Nessun bambino dovrebbe soffrire”. Sacrosanto. Ma l’origine di tutto lo strazio patito andrebbe cercata nelle comuni responsabilità, in quell’interesse nel ridisegnare i confini per la geopolitica dei gasdotti e forse in una gestione del terrorismo scappata di mano.
Anche per Tony Blinken, vice segretario di Stato con Obama e suo vice consigliere per la Sicurezza nazionale dal 2014, editorialista del New York Times – giornale che mai prima d’ora aveva mostrato inclinazione per il Presidente - ben avrebbe fatto Trump “ad attaccare il regime di Bashar al Assad per aver usato un’arma di distruzione di massa, l’agente chimico sarin, contro il suo popolo. Quando un tiranno viola palesemente una norma basilare della condotta internazionale, il mondo guarda all’America perché agisca”. E forse il Presidente ha ragionato seguendo questa logica, riportando il paese alla credibilità nel voler perseguire la fine della guerra. Ma ora le relazioni dovranno – come sottolinea Blinken – svolgersi sotto il segno della più intelligente diplomazia.Chiarirsi sicuramente con i russi e stare attenti “ad evitare che nuovi attacchi chimici di Assad trascinino l’America in un intervento diretto dai contorni rischiosi”.
La domanda delle domande però è: perché Assad avrebbe dovuto fare una cosa del genere, proprio adesso che la guerra contro i ribelli stava dando la meglio a lui?
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