“I migliori di noi”

L’ultimo lavoro di Andrea Scanzi

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In occasione della rassegna “Incontri d’Autore”, la Fondazione Giuseppe Tatarella di Bari ha aperto le porte della sua storica biblioteca al poliedrico Andrea Scanzi, nel capoluogo per due impegni: la presentazione del suo ultimo romanzo e l’evento“Gaber se fosse Gaber”, al teatro Palazzo di Bari, prodotto dalla Fondazione a lui dedicata. La giornalista Lorena Saracino ha introdotto il libro edito da Rizzoli, uscito lo scorso 3 novembre. La storia di amicizia tra Fabio e Max, ambientata nell’amata città natale di Scanzi,Arezzo, colpisce per la caparbietà di un sentimento che resiste integro a trent’anni di distanza e a sgambetti di prosaico interesse economico.

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Il romanzo è fortemente autobiografico. Sullo sfondo, Arezzo, la sua città di origine, con una descrizione puntuale e dettagliata delle viuzze e dei locali del centro storico che lei frequenta quotidianamente, per finire all’esaltazione delle bellezze del patrimonio artistico. E’ autobiografica anche la teoria delle tre tavole di Max per conquistare le donne?

Senza dubbio il romanzo è anche una grande dichiarazione d’amore per la mia città. Sono molto felice che, grazie a “I migliori di noi”, tanti abbiano scoperto Arezzo. E’ una città bellissima, che spesso si dimentica di essere tale. A marzo il sindaco mi ha dato il premio Civitas Aretii che, per certi versi, equivale un po’ a ricevere le “chiavi della città”: è stata una grande emozione. Arezzo oggi è nota più che altro per Fanfani, Jovanotti - che poi è di Cortona ed è nato a Roma - per Pupo, per i Negrita, ma anche per la Boschi, Gelli - che era di Pistoia - e per il drammatico caso Banca Etruria. Non scherziamo: ha dato i natali a Petrarca, a Vasari, a Michelangelo, a Pietro Aretino, a Guido Monaco. Eccetera. Di che parliamo? Certo, siamo passati da Petrarca a Scanzi, ma non si può avere tutto. Le tre tavole di Max per conquistare le donne sono una delle tante “tamarrate” del protagonista: spero di essere più garbato di lui, anche se effettivamente siamo entrambi molto soggetti al fascino femminile. Di solito però sono più conquistato che conquistatore. Speriamo che duri.

Nel calendario emozionale Fabio sostituisce le date dell’anno con accadimenti di particolare interesse. Anche lei ha un calendario emozionale per immortalare le date più significative? Ce ne concede un esempio?

Si, lo faccio anch’io. Da sempre. Il 1990 è l’anno della morte di Stevie Ray Vaughan, il 1991 è l’anno in cui ho visto la prima volta Gaber, il 1992 è l’anno di Amused To Death di Roger Waters, il 1994 è l’anno del gol di Savicevic al Barcellona in Finale di Coppa Campioni, il 1998 è l’anno della doppietta di Pantani e della perdita di un amico carissimo. Il 1999 è l’anno del mio crociato saltato in aria, il 2001 è il G8 di Genova, il 2010 è l’anno in cui il mio primo cane ha rischiato di morire di piometra, il 2011 è l’anno del mio arrivo al “Fatto” e della morte di mio nonno. Eccetera. Per ogni anno ho almeno 5/10 highlights, non sempre belli, che mi rimandano a quell’epoca precisa.

cms_6171/3.jpgIn “Non è tempo per noi” lei fa un ritratto impietoso e allo stesso tempo autoironico della “generazione di mezzo”, più rottamata che rottamatrice. Rafforza, indugiando, il concetto della desolazione del passare del tempo. D’altro canto la figura del Vaiana, un anziano avventore del locale frequentato dai protagonisti, ci insegna che si può nascere già vecchi: secondo lei avere un certo approccio alla vita può conferire la possibilità di riscattarsi dalla desolazione della vecchiaia?

Bella domanda. Di sicuro Vaiana sa vivere la vita, e quindi anche la vecchiaia, perché ha un approccio costantemente incazzato. Ma quella incazzatura bella, solare, che hanno solo certi vecchietti illuminati. Penso, in Toscana, a una figura che ho amato molto come Carlo Monni. Mi sento molto vicino a queste persone, mentre detesto i giovani nati vecchi e costantemente furbetti, di cui la mia generazione è piena.

Durante l’intervista ho constatato in lei un benessere e una tranquillità interiore che denotano equilibrio psico-fisico. La sua pace sicuramente le fa vedere le cose da un’angolazione particolarmente benevola. Non sarà questo che le fa apparire Arezzo come una tra le città più belle del mondo?

Arezzo incide molto nella mia tranquillità interiore. E’ il mio buen retiro, il luogo magico in cui torno – quei sette/dieci giorni al mese – per ricaricare le pile, godermela e perdermi con la Harley nella sua provincia sublime. Il 2017 è stato l’anno in cui, dopo aver spinto oltremodo sul pedale dell’acceleratore per sei anni, ho deciso scientemente di rallentare un po’. E godermela di più. Dalla fine del 2010 a tutto il 2016 ho vissuto sei anni pazzeschi, facendo anche 100mila chilometri l’anno in auto. Tivù, teatro, libri, giornali, vita privata folle e ritmi allucinanti. E’ la mia natura, mi annoio subito di tutto, ma da quest’anno ho deciso che dirò anche tanti “no”, per esempio in tivù. E che me la godrò molto, ma molto di più. Lo facevo anche prima: non immaginatemi monaco tibetano. Ma da quest’anno ho dato una svolta ulteriormente “edonistica” alla mia vita.

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L’ultima domanda è più che altro una constatazione, solo per strapparle un sorriso. In realtà l’evidenza che Arezzo ha qualcosa di speciale traspare dai suoi occhi quando ne parla. Questo romanzo, oltre alla scoperta del finale, stimola la curiosità urgente di visitarla.

Ne sono davvero felice. E’ forse il complimento migliore che mi si può fare, dopo aver letto “I migliori di noi”.

Maria Cristina Negro

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