STORIE DAL PIANETA TERRA

DRACULA SULL’ADDA

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Nel paese le finestre delle case in pietra erano tutte ben chiuse, le porte sprangate, la notte tutti restavano chiusi in casa. Alla debole luci dei lampioni forse solo l’ombra di qualche animale randagio, ma nessuno osava uscire di sera, quando il sole era ormai calato, perché in giro c’era il vampiro. Finché un giorno l’annuncio che tutti attendevano, il pericolo era cessato, l’anima nera che terrorizzava gli abitanti era morta. Tutto questo avveniva nel 1918, ma non in uno sperduto villaggio della Valacchia oppure in Transilvania, bensì sulle rive dell’Adda, nel comune di Bottanuco, provincia di Bergamo. Vincenzo Verzeni era morto, l’incubo era finito, le sue vittime potevano riposare in pace. Eppure la sua storia è sopravvissuta al passaggio di una guerra, alla ricostruzione ed ancora al passaggio al nuovo millennio. Era il 1849 quando in una famiglia di poveri contadini nasce Vincenzo. Il padre un uomo dedito solo all’alcool, violento ed ignorante, e la madre sofferente di crisi epilettiche. Erano anni in cui le famiglie contadine vivevano tutte assieme, tutti parenti a condividere gli stessi spazi, la stessa misera, ed in questa situazione Vincenzo, appena diciottenne, si avvicina alla cugina Marianna mentre dorme. Le cronache raccontano poco, la bocca di lui vicino al collo di lei che, svegliatasi, urla. Poi la fuga, la famiglia che lo rintraccia nelle campagne, tremante, e chissà le cinghiate dal padre. Ma nessuno denuncia il fatto, certe cose si risolvono in privato. Il tempo passa, ora è un ventenne assetato di sangue che aggredisce una lavorante dei campi, Barbara Bravi, me lei reagisce, e lui, come una bestia ferita scappa ancora, e poi non soddisfatto ancora la povera Margherita Esposito viene abbrancata, assalita, aggredita, ma le combatte, lo graffia al volto ferendolo, e lui scappa ancora. Viene preso dalla polizia, ma ancora non si procede nei suoi confronti, nelle campagne italiane di fine 1800 i personaggi come Vincenzo erano i matti da prendere in giro, era il vampiro, non si denunciavano certe persone.

Si bastonavano, si mettevano nelle stalle in punizione, ed intanto la fame di Vincenzo cresceva. E nello stesso anno però rapisce un’altra donna, la porta in un pagliaio abbandonato, ma poi non sa che farne, forse vederla piangere lo commuove, e così la lascia andare. Sarà nel 1870 che la follia del vampiro raggiunge il culmine, ed a farne le spese è la piccola Giovanna Motta, 14 anni appena, trovata 4 giorni dopo la sua scomparsa. Il cadavere mutilato, morsi sul collo, organi asportati, intere parti sbranate. Inoltre alcuni spilloni ritrovati accanto al cadavere suggeriscono un accanimento sadico contro quel corpicino. Si inizia ad indagare, si sospetta di Vincenzo, nel frattempo un’altra denuncia per molestie ed aggressione, e poi ancora la ricerca di un altro collo da mordere, un’altra contadina, fino al nuovo omicidio, quello di Elisabetta Pagnoncelli, ritrovata nelle stesse condizioni della piccola Giovanna Motta.

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Alla fine tutte le prove conducono a Vincenzo, che viene arrestato. Incaricato della perizia psichiatrica è Cesare Lombroso, il quale non riterrà il criminale un disagiato mentale, ma un sadico sessuale, vampiro, divoratore di carne umana, affetto da cretinismo e necrofilo. Oltretutto la dieta locale a base di polenta di mais lo rendono affetto dalla pellagra, una malattia spesso scambiata per lebbra. Fu lo stesso Vincenzo a descrivere i momenti degli omicidi durante il processo “ Io ho veramente ucciso quelle donne e ho tentato di strangolare quelle altre, perché provavo in quell’atto un immenso piacere. Le graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte colle unghie ma con i denti, perché io, dopo strozzata la morsi e ne succhiai il sangue che era colato, con cui godei moltissimo”. Giudicato colpevole e condannato all’ergastolo, viene mandato a Milano, lavori forzati a vita, ma Vincenzo non regge al carcere, e prova a suicidarsi, impiccandosi nella sua cella, anche se l’intervento delle guardie lo salva da morte certa. Ma Vincenzo è scomodo, nemmeno i carcerati lo sopportano, lo sfuggono, forse lo temono, il soprannome di Vincenzo è noto ovunque, il vampiro. Così si decide di trasferirlo a Civitavecchia, ma purtroppo i documenti dell’epoca sono illeggibili, solo poche righe, però esistono altre testimonianze, come un articolo dell’Eco di Bergamo del 1902, in cui vengono espressi i timori degli abitanti di Bottanuco sul possibile ritorno del vampiro. Ed effettivamente Vincenzo viene scarcerato, dopo 30 anni, lasciato libero di tornare al suo paese. La sua ombra si allunga sulle strade di Bottanuco mentre la gente sussurra il suo nome, chi c’era e ricorda, chi ne ha solo sentito parlare, il vampiro spaventa tutti. Ma quella notte di Capodanno del 1918 la paura finì, ed il vampiro italiano divenne solo un ricordo, un nome su una tomba di cui si ignora anche la posizione.

Paolo Varese

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