IL RAPIMENTO MORO (Seconda parte)

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Aldo Moro, il Presidente della D.C., era stato rapito. Un evento che non si limitò a colpire il mondo politico, ma che mise in discussione ciò che fino a quel momento erano stati i rapporti tra lo Stato e le formazioni extraparlamentari. Il terrorismo era una realtà, aveva già colpito, ma non si era mai arrivati così in alto, a toccare gli intoccabili. Talmente si sentiva sicuro l’apparato statale, che le armi della scorta, i fucili mitragliatori, erano nel bagagliaio delle vetture. D’altra parte, come asserì la moglie dello statista rapito, Eleonora, gli agenti di scorta non avrebbero saputo utilizzare quelle armi, non facendo mai esercitazioni di tiro, non avevano dimestichezza con il loro maneggio, E sempre lei riportò anche le parole di un agente rimasto ucciso, che si lamentava del fatto che la radio di servizio non funzionava, e che le pistole erano riposte nei borselli degli agenti, e non pronte per l’estrazione. In seguito, la vedova dello stesso agente dichiarò che il marito negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine di girare con la pistola nella fondina perché si era accorto di essere seguito da una macchina. Già, i mitragliatori nei bagagliai e le pistole nel borsello, oltre alle radio di servizio non funzionanti. Stando alle confessioni di Morucci, uno dei brigatisti coinvolti, la banda criminale non aveva la certezza che Moro sarebbe transitato in via Fani la mattina del rapimento, era uno dei percorsi abituali ma non l’unico, e quindi loro erano pronti per colpire, ma anche pronti a rinunciare. Una affermazione che lasciò perplessi gli inquirenti, considerato il dispiegamento di mezzi e di persone. Come poteva essere credibile che, una operazione studiata fin nel minimo dettaglio, fosse andata a buon fine solo per un colpo di fortuna?

cms_7024/2.jpgEppure, nessuno cercò di verificare se le parole del terrorista potessero corrispondere a verità. Il dubbio insiste anche relativamente alla durata dell’azione, appena 3 minuti, dalle 9.02 alle 9.05, con tanto di sequestro di Moro, trafugamento di due borse dello statista, e fuga delle auto dei terroristi senza nessun intralcio, neanche una macchina in doppia fila. Dopo aver effettuato un percorso tortuoso tra le vie di Monte Mario, anche in questo caso senza incontrare nessun ostacolo, e dopo il cambio di una vettura con un furgone, al cui interno, dentro una cassa di legno era stato nascosto Moro, tre dei terroristi, assieme al rapito, raggiunsero via dei Colli Portuensi, in una zona di Roma lontana da via Fani. Da li, dopo un trasbordo della cassa effettuato nel parcheggio sotterraneo del supermercato Standa, si diressero a poca distanza, in via Montalcini, al civico 8, dove c’era l’appartamento che sarebbe servito da prigione. Per chi non conosce Roma, si tratta di una zona di Roma non esattamente disabitata, anzi, e nonostante si trovi a poca distanza da via della Magliana, dove agiva la famosa banda criminale negli stessi anni, i palazzi sono lussuosi, di cui la maggior parte con parchi privati e servizi di portierato. Ma nessuno si accorse di nulla, nessuno si avvide di quelle persone sconosciute che entravano ed uscivano da quell’appartamento, in un’epoca in cui non erano proliferati ancora bed&breakfast oppure case vacanze. Nel frattempo la notizia del rapimento era stata diffusa, anche in seguito alla telefonata di rivendicazione da parte di Valerio Morucci. Per chi viveva a Roma in quegli anni non sarà difficile ritrovare nella memoria le immagini di una città con i negozi chiusi, le strade deserte e piene di posti di blocco, i notiziari diffusi a ripetizione in edizione straordinaria. Morucci comunicò il messaggio all’ANSA, “Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate rosse”. Firmato Brigate Rosse, una denominazione D.O.C., una palese affiliazione alla Sinistra, tanto che Berlinguer, appena appreso il fatto, parlò di un tentativo estremo per frenare un processo politico positivo, appositamente per fugare ogni dubbio sulla reale natura terroristica dei rapitori. I sindacati confederati, CGIL, CISL e UIL proclamarono uno sciopero generale fino alla mezzanotte della stessa giornata, per consentire agli iscritti di recarsi presso le assemblee spontanee che si stavano organizzando. La notizia ebbe un impatto assolutamente imprevedibile: da una parte chi, con sguardo lucido comprendeva la strategia posta in atto, per minare i fondamenti della sicurezza sociale e civile, e dall’altra invece chi brindava, invocando un cambiamento sociale per le classi dei lavoratori, non considerando affatto la possibilità di interruzione dei rapporti in atto per creare una coalizione a cui potesse prendere parte anche il P.C.I., impedendo la realizzazione del cosiddetto compromesso storico. Alle ore 10.50 un nuovo messaggio, inoltrato alla sede dell’ANSA dai brigatisti di un’altra colonna, la Walter Alasia, chiedeva la liberazione dei brigatisti detenuti a Torino, di quelli di Azione Rivoluzionaria e dei componenti dei N.A.P., un altro nucleo armato. In caso di rifituo, ovviamente, l’ostaggio sarebbe stato ucciso, ma la D.C. non volle mai prendere in considerazione l’ipotesi di un dialogo o di accettazione di un ricatto. Il primo, vero, comunicato delle Brigate Rosse, relativo al rapimento, venne rinvenuto durante i funerali degli agenti di scorta, nella Basilica di San Lorenzo al Verano, in cui veniva rimarcato il ruolo di Moro, secondo i brigatisti, come esecutore delle direttive imperialiste.

Paolo Varese

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