Pedagogia e scuola
Binomio perfetto non sempre realtà

Siamo ai primi di dicembre e l’anno scolastico è ormai avviato da qualche mese. Come da alcuni anni accade, le polemiche sugli effetti della “Buona scuola” subiscono una recrudescenza, specie in corrispondenza dei primi mesi di scuola.
Nel nostro Paese si assiste da sempre a un sistema scolastico assediato da buoni propositi cui fanno seguito risultati mediocri, se non addirittura insufficienti o nulli. Si ha la sensazione che il vero scopo sia rendere sempre più complesso e burocratizzato un apparato amministrativo che acquista, giorno dopo giorno, proporzioni bibliche. Piuttosto che facilitare il processo di apprendimento, si inventano nomi, professioni, competenze che non trovano alcun riferimento nel contesto di vita reale.
Alcuni anni fa fu proposta una figura posta a metà tra il docente e il pedagogista, il “docente mentor”,unitamente al “quadro intermedio” che avrebbe dovuto “coordinare la formazione degli insegnanti” dei diversi plessi. Un’ulteriore competenza strappata via dalle maglie delle professionalità pedagogiche per essere ridistribuita, senza alcun criterio di selezione. Ciò nasce dalla convinzione che chiunque sia in grado, se docente, di rivestire ruoli che non gli competono e che, nella maggior parte dei casi, non hanno mai interessato il loro percorso di formazione accademica, dimenticando che l’insegnante in realtà è competente nella propria materia, quella in cui è laureato, e non un esperto di processi di apprendimento, né di quelli relazionali.
La Pedagogia nel nostro Paese, o meglio ancora la figura del Pedagogista, è quasi totalmente misconosciuta; ci si ostina a vivisezionare figure pedagogiche per trapiantarne le singole componenti ai nuovi cyborg-insegnanti in circolazione. Quest’ultimo è metaforicamente steso sul tavolo operatorio, pronto a ricevere i suoi innesti: progettazione formativa, consulenza educativa, gestione del gruppo classe, rapporti con il territorio, capacità empatiche, cognizione tecnica, dizionario burocratese-italiano-burocratese, etc.
L’errore di fondo risiede nella convinzione che istruzione ed educazione siano la stessa cosa. In realtà, la prima è indottrinamento, la seconda una modalità di apprendere la vita; una core-competence essenziale per poter garantire la sopravvivenza e il rinnovamento di nuove forme di governo democratico. Quindi la scuola dovrebbe educare, ma educare per la Scuola italiana vuol dire istruire.
È opinione diffusa che ogni allievo sia motivato a “bere” contenuti come fossero acqua sin dal suo ingresso a scuola. Laddove tale aspettativa venga tradita o violata, non ci si chiede mai cosa non abbia funzionato nell’accompagnare e nel sostenere il cammino di sviluppo dell’allievo, piuttosto si preferisce tributare l’insuccesso alla scarsa motivazione allo studio, a un nucleo familiare fragile, o a una qualunque altra motivazione che possa connotarsi quale deviazione dalla linea mediana delle aspettative ordinarie. Se non si rientra in questi parametri, allora si ritiene di essere alle prese con un “disturbato” che non ha diritto di esistere in un sistema socio-educativo, che deve essere confinato nell’universo sanitario.
La realtà è che, in un Paese civile e democratico, la necessità di forgiare un sistema di istruzione valido universalmente dovrebbe cedere il passo alla volontà di trasmettere valori umani condivisi e concreti - come già auspicato da Morin - quali il senso dell’aver cura, del rispetto profondo per ogni complessità vivente e l’ambiente cui appartiene, la capacità di aprirsi a significati nuovi muovendo dalla consapevolezza del proprio universo interiore: emotivo e cognitivo. Un sistema, insomma, il cui fine sia “educare alla vita attraverso la vita”.
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