L’eredità culturale di Dario Fo

I giovani, il teatro e la politica: l’intervista

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Quando alcuni anni fa decisi che avrei discusso la tesi sulla funzione pedagogica del Teatro, qualcuno mi suggerì un’idea apparentemente irrealizzabile: intervistare Dario Fo, per chiedere al Maestro un parere autorevole sull’argomento.

Come spesso accade con i grandi uomini, Dario si rivelò inaspettatamente disponibile, accordandomi quasi immediatamente un’intervista telefonica. Poiché tra qualche giorno avrebbe compiuto 92 anni, vorrei condividerla con i lettori di questa Rubrica, dal momento che le sue riflessioni risultano ancora incredibilmente attuali.

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D: «Secondo Lei, Maestro, qual è la funzione del teatro politico e totalmente impegnato oggi, rispetto al passato?».

R: «Io ho avuto la fortuna di vivere la fine della guerra, quando si scopriva la libertà di espressione, la satira, l’ironia ecc… Con l’arrivo della Democrazia Cristiana è apparsa la censura e abbiamo penato molto, siamo addirittura stati sbattuti fuori dalla televisione, abbiamo subito una censura continua e per sedici anni non abbiamo potuto esprimerci, siamo stati tenuti fuori. Poi c’è stato un momento di calma, quando i socialisti sono arrivati al potere, infine il crollo, il disastro, “Mani pulite” e via dicendo… naturalmente non avevamo la possibilità di fare satira in quel momento, poi c’è stato l’arrivo alternato di Berlusconi e sono ricominciati gli ostracismi, le censure ed altro…

Quindi, oggi come oggi, i ragazzi incontrano grandi difficoltà se vogliono fare un teatro veramente satirico, altrimenti devono auto-censurarsi, come succede a molti che hanno doti di grande livello ma sono costretti a “purgarsi” se vogliono sopravvivere e cambiare discorso, argomento, cambiare modo di concepire le cose.

Oggi è dura, in fondo si stava meglio quando si è usciti dalla guerra e persino - dirò una cosa che sembra un’eresia - con la DC il potere era meno assoluto e drastico, soprattutto nel dominare il mezzo televisivo, che è la forma di comunicazione più importante e di conseguenza questo vale anche per il teatro».

D: «Ritiene dunque che oggi vi siano suoi eredi a fare teatro?».

R: «Sono parecchi ma, come ho detto, hanno poco spazio. Io ho visto cose interessanti e coraggiose da parte di gruppi che rischiano di non trovare teatri, di non avere spazi. In conseguenza di questa crisi, c’è stata la penalizzazione di tutta la rappresentazione, da quella parlata a quella cantata, recitata, satirica e comica messe insieme».

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D: «Nel mio lavoro di tesi, ho svolto una ricerca su quella che ho pensato di definire la sua “religiosità laica” …».

R: «Ho cominciato a fare un lavoro di ricerca e mi sono reso conto che il popolo ha una sua religiosità, che naturalmente non collima con quella dei preti. Alcune volte questi ultimi attingono da queste tradizioni popolari, ma spesso hanno delle grane immense in quanto i vescovi non ne vogliono sapere.

Questa libertà quindi soffre; alcuni vengono ad esempio mandati in Africa, devono soccombere al potere, vengono messi in disparte, soffrono di un’aggressività piuttosto dura da parte delle organizzazione religiose di tutti i tipi».

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D: «Per concludere, vorrei chiederLe cosa ha rappresentato per Lei il Nobel assegnatoLe e cosa ricorda di quel giorno».

R: «Il premio Nobel è stato importante per me e per Franca, che l’ha con me guadagnato, perché ha fatto scattare un’attenzione verso gli increduli, verso coloro che cercavano di rivolgersi alla satira e al grottesco con sufficienza, e poi si sono accorti che c’è stato qualcosa di importante. Inoltre, ancora più straordinario è stato che un attore salisse sul palcoscenico del Nobel. Per questo è stata una vittoria non mia, nostra, ma di tutta la classe dei comici».

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Per chi ha apprezzato la sua Opera, l’assegnazione del Nobel è stata il giusto riconoscimento ad un’intera esistenza vissuta sul palcoscenico, volta ad educare alla politica, ad insegnare a pensare, a diffondere la cultura attraverso un teatro non più elitario, ma rivolto a tutti.

Lucia D’Amore

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