Storie di straordinaria follia

Vincent Van Gogh e il manicomio di Saint Rémy

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Il celebre pittore fiammingo Vincent Van Gogh, nato nel marzo del 1853 a Zundert e morto suicida nel 1890, rientra nella lunga lista di personaggi illustri che hanno trascorso parte della loro esistenza internati in un ospedale psichiatrico e che hanno tratto da questa esperienza nuova linfa vitale, nonché
fonte di ispirazione per la propria attività artistica.

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Il manicomio di Saint Remy, dove Vincent Van Gogh fu internato per “mania acuta con allucinazioni uditive e visive”, galleggia dentro una luce morbida, e non mette paura. Ci si arriva percorrendo un viale di ulivi e cedri. Il luogo si chiama Saint Paul de Mausole, appena fuori Saint Rémy, ed è un antico monastero diventato ospedale psichiatrico nel 1855: un cartello avverte che funziona ancora, e una freccia sbiadita indica il percorso turistico, per non confonderlo con i passi dei malati. I colori violenti, disperati di Vincent non ci sono. Tutto è come avvolto nel pallore di un sogno. Una statua magra dell’artista, spiritato anche nel bronzo e con un buffo mazzo di girasoli in mano, accoglie il visitatore. Poi si varca la soglia di una piccola, magnifica chiesa spoglia, e da lì si passa nel chiostro trapuntato di begonie rosa e contornato da siepi di bosso. Infine, il portone del manicomio che Van Gogh dipinse dall’interno, prigioniero, lasciando filtrare appena la libertà del sole e il fresco remoto di una fontana. Anche la facciata, che in un altro famoso quadro appare inquietante e come soffocata dagli ulivi, vista dal vivo non è che un delicato muro come tanti.

cms_9023/3.jpgA Saint Remy, dove l’artista giunse dopo essersi amputato l’orecchio e dove fu ospite per 53 giorni, Van Gogh dipinse ben 150 tele, di cui alcune capolavori immortali, altre disperse. Queste ultime causarono al patrimonio artistico una perdita incommensurabile.

Gli Iris, La camera di Vincent ad Arles, L’autoritratto blu, L’Arlésienne, La notte stellata, (terribile notte dove la luna è un sole che precipita, il cipresso un coltello nero e gli astri sanguinano), sono solo alcuni titoli delle sue opere immortali datati in questo breve periodo della sua vita.

Dopo aver dipinto La notte stellata nel dicembre 1889, tentò di avvelenarsi inghiottendo colori a tempera e bevendo il cherosene delle lampade. Eppure, Vincent van Gogh non era un pazzo furioso. Qui, al manicomio di Saint Paul, aveva addirittura due stanze, come l’ospite di un albergo. Il fratello Theo pagava la retta e gli inviava il materiale per dipingere, che Van Gogh chiedeva di continuo: «Mandami, ti prego, trentatré tubetti di colore bianco, rosso lacca, verde smeraldo, arancione, cobalto, malachite, cromo e blu oltremare». Dipingere per resistere, per svelare il mistero del colore assoluto e la crudeltà della natura in apparenza dolce e quieta, in realtà tiranna e indifferente, matrigna come la vide Leopardi. «L’arte è un addestramento alla sopravvivenza» scrive ancora il pittore al fratello Theo.

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Al tempo del suo internato non esistevano analisi e psicoterapia, i malati erano povere creature imbottite di bromuro, sfiniti con purghe e salassi, quando non incatenati al letto o appesi al soffitto dentro autentiche gabbie di tortura. Li lasciavano lì a dondolare finché non si fossero calmati. L’ultimo anno di Van Gogh prima del suicidio, il più denso creativamente e il più terribile dal punto di vista umano (quattro gravi crisi, lunghe settimane come fuori coscienza, poi la strenua lotta per il ritorno alla regolarità e alla pittura) è scandito dalle lettere al fratello e dalle testimonianze di chi lo avvicinò. Come il dottor Théophile Peyron, direttore del manicomio che stilò la diagnosi di epilessia, oppure l’infermiere Georges Poulet, che aveva l’incarico di sorvegliare l’artista durante le ore d’aria trascorse a dipingere, senza mai rivolgere la parola agli altri ricoverati. Tutti parlano di Vincent come di una creatura inquieta e scostante, brutta e sgraziata, taciturna e solitaria. Nessuno, neppure il fratello, aveva capito che fissare gli occhi nell’orrore colorato della natura e degli oggetti era, per Van Gogh, l’unica forma di resistenza e consunzione insieme.

Diversamente non sarebbe mai potuto diventare l’artista che conosciamo e la sua fama, ahimè postuma, non avrebbe mai potuto raggiungere i livelli universali che la caratterizzano e che affiancano il suo nome a quello dei più grandi artisti di sempre.

Lucia D’Amore

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