Altri sei anni di carcere, è questa la condanna per due casi di corruzione inflitta a Aung San Suu Kyi. La condanna verso la 77enne premio Nobel per la pace, si aggiunge ai già precedenti 20 anni di reclusione per varie accuse. La carriera politica di Aung San Suu Kyi ha trovato fondamenta sin da piccola attraverso il padre, figura di spicco nella politica birmana degli anni ‘40 e ‘50, e la madre anch’essa divenuta una delle principali esponenti politiche del Paese. Aung seguì quindi molto da vicino l’evoluzione della Birmania. Dopo aver studiato in Inghilterra e Stati Uniti, fece ritorno in Birmania nel 1988, nell’anno in cui le proteste cittadine culminarono nella rivolta 8888 e le dimissioni del dittatore militare Ne Win. Aderì subito alla causa divenendo ben presto un simbolo del movimento democratico nazionale. Nel settembre dello stesso anno l’esercito compì un colpo di stato con una forte violenza e repressione verso i manifestanti, mettendo a capo dello Stato Saw Maung. Il nuovo regime militare annunciò in seguito la volontà di indire delle elezioni democratiche con il sistema multipartito. In vista della tornata elettorale Aung San Suu Kyi, ormai personaggio di spicco della Birmania, fondò la Lega Nazionale per la Democrazia divenendone subito il segretario generale. Aung svolse continui comizi in giro per il Paese, nonostante la proibizione del regime. Queste sue attività le costarono gli arresti domiciliari, senza nemmeno un processo, con la possibilità di lasciare la Birmania. Aung San Suu Kyi decise comunque di rimanere e nel maggio del 1990 alle elezioni generale il suo partito vinse in modo schiacciante. La leader birmana doveva quindi divenire il primo ministro, ma la giunta militare mantenne comunque e con la forza il potere, annullando il voto popolare. Per via delle sue battaglie pro democrazia e delle sue attività, nel 1991 ad Aung San Suu Kyi venne assegnato anche il premio Nobel per la Pace.
Aung San Suu Kyi rimase quindi agli arresti domiciliari, che le vennero revocati solo nel 1995 ma rimanendo comunque in uno stato di semilibertà senza nemmeno poter lasciare il Myanmar. Nel corso degli anni il suo operato in Birmania e le sue lotte per i diritti umani raggiunsero consensi in tutto il mondo, tanto da diventare uno dei casi internazionali più importanti. Tanti sono stati gli interventi di spessore in suo favore e per la sua libertà, dagli Stati Uniti all’Unione Europea passando per le Nazioni Uniti ed il Papa Giovanni Paolo II. Nonostante ciò il regime birmano dopo averla lasciata in semilibertà per qualche anno fu rimessa ai domiciliari nel 2003. Le pressioni internazionali non hanno quindi cambiato la sorte di Aung San Suu Kyi, che invece ha visto rinnovati gli arresti domiciliari nel 2005, 2006 e 2007. Nel 2009 il governo del Myanmar cercò nuovamente di mettere fuori gioco la leader della Lega Nazionale per la Democrazia prima con un’accusa di violazione degli arresti domiciliari, poi con una nuova condanna a tre anni di lavori forzati per violazione della normativa della sicurezza, che furono poi commutati dalla giunta militare in 18 mesi ulteriori di arresti domiciliari. Dopo un calvario di oltre 15 anni, il 13 novembre 2010 Aung San Suu Kyi fu liberata potendo quindi tornare alle sue attività politiche. Nel 2015, alle prime elezioni libere dal colpo di Stato del 1962, il suo partito ottenne un grande risultato e Aung San Suu Kyi divenne Ministro degli Affari Esteri, della Pubblica Istruzione, dell’Energia e Ministro dell’Ufficio del Presidente durante il governo di Htin Kyaw.
Nel 2017 Aung San Suu Kyi è stata al centro di una controversia e pesanti critiche internazionali. Il caso era il genocidio della minoranza musulmana dei Rohingya. L’accusa e critiche verso Aung erano di indifferenza, ed anche ostilità, verso la minoranza che ha subito da parte delle forze armate birmane in quegli anni un vero e proprio genocidio. Il caso è stato dibattuto a livello internazionale, ed è costato ad Aung San Suu Kyi la revoca di numerosi premi ed onorificenze oltre che accuse e critiche pesantissime.
La questione non è mai stata conclusa definitivamente, nonostante un processo davanti alla Corte internazionale di giustizia. La stabilità della Birmania però dura solamente qualche anno. Il 1° febbraio 2021 Aung San Suu Kyi viene nuovamente arrestata nel contesto di un nuovo colpo di Stato promosso dalle forze armate in protesta verso l’esito delle elezioni generali del novembre 2020 vinte ancora dalla Lega Nazionale, considerate false. Aung viene quindi accusata di corruzione, importazione e possesso illegale di walkie-talkie, violazione delle leggi sui disastri nazionali, sul segreto di Stato e sull’emergenza da coronavirus. Nel dicembre dello stesso anno sono arrivate le condanne: due anni di reclusione per sedizione e due anni per aver violato le restrizioni sul coronavirus durante la campagna elettorale. Ora, ai già svariati anni di reclusione a cui Aung San Suu Kyi è stata condannata, ne sono stati aggiunti appunto altri 6 per due casi di corruzione, come riportato dall’AFP.