In Birmania la violenza della repressione non smorza le proteste. Dopo il golpe del 1° febbraio 2021, per le strade di Rangoon, la capitale economica del paese, sono state innalzate barricate con sacchi di sabbia, canne di bambù e pezzi di metallo, per arrestare l’azione della giunta militare al potere e recuperare il controllo delle proprie città. L’esercito birmano schierato dalle forze golpiste, è ben equipaggiato, e in svariate occasioni ha dimostrato di non tenere conto della sproporzionalità della repressione in un contesto di lotta ad armi impari che ha prodotto ad oggi un bilancio di 780 morti e 3.800 arresti. I manifestanti d’altro canto, spesso giovanissimi, hanno a propria disposizione armi rudimentali autofabbricate, che non dispongono della capacità di poter fronteggiare i proiettili veri utilizzati dall’esercito. Da giovedì scorso la giunta ha imposto la legge marziale nella cittadina di Mindat, dove, secondo quanto riportato dall’emittente locale Myawaddy, controllata dai militari, “uomini senza scrupoli” avrebbero attaccato le forze di sicurezza, uccidendo alcuni militari.
Altre testimonianze descrivono invece circostanze per le quali 20.000 persone si troverebbero intrappolate, e secondo le dichiarazioni del dottor Sasa, ministro della Cooperazione internazionale del governo di unità nazionale, nato per contrastare la giunta, si contano anche 5 vittime tra i civili. Purtroppo l’orrore del colpo di stato militare, ripropone in serie le sue modalità a prescindere dal contesto storico e territoriale in termini di brutalità. Una delle numerose storie portate alla luce dai giornali esteri, è quella di Zaw Myatt Lynn, insegnante di 46 anni ed esponente della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, intercettato dai militari nella scuola presso cui lavorava nella periferia di Rangoon e arrestato.
Pochi giorni dopo è stata data notizia del decesso, alla moglie Lynn, invitata a recuperare il corpo presso un ospedale militare. Nonostante la versione ufficiale riporti che l’uomo sia morto durante un tentativo di fuga, il giornalista del Guardian che ha potuto vedere le foto del cadavere, racconta di evidenti segni di tortura riportati sul corpo della vittima, sfigurata con agenti chimici. Purtroppo in Birmania sembrerebbe essere stato superato un punto di non ritorno, con una popolazione che continua a perseverare nella resistenza e a richiedere il ritorno della democrazia e la scarcerazione dei leader democratici, pur consapevole di non poter contare su un appoggio internazionale incisivo, a causa della rivalità sino-americana che tende ad inquinare le rispettive relazioni internazionali.