“Reggio Calabria, papà prende a pugni l’insegnante di suo figlio, dopo un colloquio scuola[ famiglia’’, “Spedizione punitiva: in 30 picchiano l’insegnante di sostegno”… no, non si tratta di fake news, ma di episodi di cronaca realmente accaduti.
Secondo la Polizia di Stato da Nord a Sud Italia, tra il 2023 e il 2024, sono 133 i casi aggressione ai danni di insegnanti, Dirigenti e personale scolastico, escluse le situazioni sommerse. Questi dati sono sufficienti per comprendere il livello di allarme. La preoccupante escalation di violenza ha portato il governo all’inasprimento delle sanzioni. La Legge n. 25 del 4 marzo 2024 prevede un aumento delle pene per le aggressioni contro il personale scolastico che, ricordiamo, nell’esercizio delle loro funzioni sono pubblici ufficiali, fino a 7 anni e mezzo di carcere. Mentre la Legge n. 150 del 1 ottobre 2024 ha aggravato le sanzioni (da 500 a 10mila Euro) a carico degli studenti condannati per reati contro il personale scolastico. Oggi a soffrire di mal di scuola non sono evidentemente solo i ragazzi. I docenti sono sempre più stanchi, vivono situazioni di esaurimento emozionale e soffrono di affaticamento mentale e fisico.
Edmondo De Amicis scriveva: “Maestro: dopo quello di padre è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo”… E allora.. C’era una volta l’insegnante, quello che Émile Durkheim ha definito “sacerdote e ministro della società”. Al di là dei provvedimenti legislativi, oggetto di varie querelle, ciò che emerge è un aspetto per niente confortante: occorre intervenire partendo dalle stesse radici del problema. Accade, infatti, a Rovigo che alcuni studenti dopo aver sparato con proiettili finti ad una professoressa siano stati promossi. Con 9 in condotta. L’abbaglio più grave è proprio questo: normalizzare episodi che non lo sono affatto. Per l’ennesima volta, la scuola ha così perso l’opportunità di assolvere ad uno dei suoi più importanti compiti, quello educativo. Le aggressioni ai docenti non avvengono nel vuoto. Rappresentano il riflesso di una società in cui “l’autorità” è sempre più calpestata. Secondo il giurista e filosofo Hans Kelsen, viviamo in una “società senza padri” che ha smarrito i suoi capisaldi, la sua tradizione e la sua capacità di produrre norme condivise e convalidate da una collettività. In questa società “segnata” dalla morte del Padre, dalla morte di Dio, come aveva annunciato Nietzsche, le Istituzioni tradizionali perdono il loro legittimo riconoscimento e quell’autentica capacità di suscitare rispetto. Con la morte di Dio, l’uomo, essere finito, è chiamato ad annunciare la sua stessa fine. Dall’uccisione del Padre deriva uno stato di anomia. Scrive Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto mi è permesso. Vengono chiuse le porte alla ragione e alla formazione sociale, etica e mentale dell’individuo nel segno di un permissivismo patologico e immorale, scavalcando tutte le barriere morali”. Se la “società senza padri” è l’esito di un’involuzione dell’universo sociale e di una perdita di valori condivisi, l’azione risolutiva non può estrinsecarsi solo nelle solitarie aule scolastiche. Viviamo in un mondo delirante, in cui la stessa politica approfitta con freddezza delle disgrazie per fabbricare consenso; dove un finto amore si altera nell’alienazione dell’altro. Secondo Hanna Arendt, ogni individuo è chiamato a rispondere delle proprie condotte, e questo implica la capacità di agire in modo consapevole e libero, riconoscendo gli altri come pari. La responsabilità deve essere assunta collettivamente, non solo dagli insegnanti, ma anche dai genitori, dalle istituzioni e dalla comunità educante nel suo complesso, promuovendo azioni realmente innovatrici. Come? Aiutiamo le nuove generazioni ad abbandonare una “libertà predatoria” e ad assumere una libertà che si prenda cura, che non miri al tutto e subito, ma che al contrario, sappia offrire e condividere.
Riprendiamo quella filosofia dell’ “I care”, di milaniana memoria, sinonimo di “per te ci sono”, “sono al tuo fianco”, “mi preoccupo di te”. Continuiamo a sperare perché, come direbbe Bob Dylan: “Essere giovani vuol dire tenere aperto l’oblò della speranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro”.