Un vulnus alla tutela del diritto d’autore viene dalla Corte Ue, con la sentenza 264/19 depositata il 9 luglio. Il principio che stiamo per descrivere prende le mosse dal caso dei film Parker e Scary Movie 5 che, nel 2013 e 2014, vennero caricati su YouTube senza il consenso degli aventi diritto sullo sfruttamento commerciale dell’opera. Secondo la Corte, in base alla direttiva 2004/48, il titolare dei diritti può pretendere da Youtube e Google solo l’indirizzo postale e non la e-mail, il numero di telefono e l’indirizzo IP dell’autore del fatto. La direttiva, in effetti, parla di “indirizzo”, e su questo concetto ci si è logorati in una vicenda processuale dove, a seconda dell’interesse delle parti, si è cercato di includervi o meno le informazioni diverse dal mero indirizzo postale da riferire alle autorità Giudiziarie richiedenti. Per la Corte il termine «indirizzo» riguarderebbe unicamente l’indirizzo postale, cioè il domicilio o di residenza di una determinata persona. Al contempo i Giudici del Lussemburgo ritengono che gli Stati membri abbiano facoltà di concedere ai titolari di diritti di proprietà intellettuale il diritto di ricevere un’informazione più ampia. La decisione è criticabile. Troppo formalista e a tratti salomonica, specie quando lascia aperta la strada a poteri più incisivi che i singoli stati dovrebbero adottare. Una interpretazione estensiva del concetto di “indirizzo” a nostro avviso sarebbe assolutamente adottabile, anzi doverosa, poiché lo pretende il sentire comune, perché lo pretende uno stato di necessità di migliaia di lavoratori del settore, perché lo pretendono milioni, miliardi di consumatori che per l’illegale diffusione delle opere intellettuali rischiano di fruirne in futuro sempre meno.
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