Il legame tra crescita economica e livello di fiducia nel futuro, in una società capitalistica e neoliberista, è assodato. Una questione attuale è se il comportamento “reale” dei governi italiani, che a parole puntano alla crescita, stia creando un clima di fiducia adeguato all’obiettivo.
A una prima analisi sembra invece proprio l’opposto.
Sul come uscire dalla crisi italiana c’è una soluzione molto popolare sui media, su cui concordano (quasi) tutti senza entrare nei dettagli: l’Italia si riprenderà solo se la domanda interna di beni di consumo aumenterà in modo apprezzabile; solo un aumento della domanda interna, infatti, può convincere le imprese traballanti a non chiudere e quelle che ancora reggono a investire, e quindi ad assumere.
Qualcuno si arrischia a spiegare “come” si possa produrre un aumento della domanda interna, esprimendo la soluzione più facile e gradita a tutti: riducendo la pressione fiscale.
Costoro fanno una magnifica doppia figura presso i lettori e ascoltatori: ottengono un magnifico risultato che piace a tutti (aumentare l’occupazione uscendo dalla crisi) con l’adozione di provvedimenti ancora più graditi (la riduzione delle tasse), e per di più criticano coloro che non si decidono ad adottare queste misure.
Raccolgono così gradimento sia nelle classi povere (più occupazione) sia nelle classi ricche (che hanno sempre il terrore che prima o poi gli elettori si ricordino della dura realtà, che già Robin Hood aveva compreso: per dare ai poveri bisogna recuperare dai ricchi ciò che hanno tolto ai poveri).
Esclusi questi esercizi di economia fantasiosa, quale sarebbe la risposta giusta? Ce ne sono diverse.
La prima risposta, quella adottata dalle politiche keynesiane del XX secolo, è un aumento della spesa pubblica; aumento da finanziare con debito pubblico, in modo da indurre una crescita economica che consenta poi allo Stato, tramite le imposte incassate nel seguito, di recuperare il debito di cui si è fatto carico. Purtroppo oggi questa soluzione non è più accessibile in Italia, perché il debito pubblico italiano è colossale (2.200 miliardi di euro nel 2014, circa 3.000 nel 2024), e non si può più mascherare la crisi economica italiana con ulteriore debito da quando la crescita del debito pubblico è stata bloccata dai nostri partner nell’euro perché insostenibile.
La ragione di questo debito pubblico da 3.000 miliardi è complessa: una spesa pubblica per quattro decenni effettuata ricorrendo al debito e all’incasso di contributi sociali (versati allora e che avrebbero dovuto essere restituiti ora come potere d’acquisto reale) ha consentito alla classe politica al governo di acquietare le classi povere senza dover gravare fiscalmente sulle classi ricche quanto sarebbe stato necessario altrimenti; si è così dato ad alcuni senza recuperare da altri.
Se il prelievo fiscale sugli alti redditi fosse stato adeguato il debito pubblico oggi sarebbe molto minore, e forse non esisterebbe. Scriviamo “forse”, perché la stessa strategia è stata seguita in tutta l’Europa Occidentale, con motivi quasi identici e, infatti, le differenze nazionali si riflettono sulle diverse grandezze di debito pubblico. Si può osservare che dove il rischio di un Partito Comunista al governo fu maggiore, lì maggiore è il debito pubblico prodotto dai partiti antagonisti. Non per nulla la Grecia ha una situazione peggiore dell’Italia, e subì anche una dittatura militare.
Su tutti i media si ripete sempre lo stesso argomento: la pressione fiscale è “eccessiva” (citando come riferimento paesi con economie e problemi ben diversi dai nostri), dimenticando volutamente di aggiungere che conta anche come tale pressione fiscale viene distribuita sui residenti in Italia anche distinguendo tra residenti di origine italiana e non italiana, con cittadinanza e senza, per etnìa di origine, per reddito della famiglia di origine.
Si manda sempre avanti il ritornello della pressione fiscale troppo elevata evitando accuratamente di scrivere che la pressione fiscale potrebbe essere ripartita diversamente, crescendo sulle classi ricche la cui quota di ricchezza nazionale in questi decenni ha continuato a crescere. Il che si può ottenere, nulla di nuovo, ad esempio gravando fiscalmente sui consumi non essenziali; ovviamente per chi dilapida la ricchezza ottenuta nessun consumo è “superfluo”: sono considerati essenziali le vacanze all’estero, le automobili con oltre duemila cc di cilindrata, gli smartphone, i capi d’abbigliamento firmati, le unghie ricostruite, e tante altre superfluità indispensabili; c’è poi sempre un gruppo di imprese che protesta perché la pressione fiscale ne riduce i fatturati, mentre c’è sempre un altro gruppo di imprese che chiede maggiori investimenti da parte dello Stato.
Una seconda soluzione possibile per aumentare la domanda interna sarebbe imporre una robusta imposta patrimoniale sulla ricchezza, specie finanziaria, in modo da recuperare dai ricchi (che in media consumano una frazione del proprio reddito) e ridare ai poveri (che sono costretti a consumarlo interamente).
Una terza ipotesi è alleggerire il fardello fiscale delle classi più povere, e uno dei modi per farlo è di estendere e rendere permanente i vari “bonus”, politica cominciata con il governo Renzi e il bonus da 80 euro, nonostante i dubbi sulla sua concreta efficacia comincino a serpeggiare. Ovviamente nessuno contesta l’efficacia propagandistica di tali misure: gettare dalla carrozza spiccioli ai poveri fa da sempre effetto!
La seconda soluzione (tassare il patrimonio) viene proposta per essere immediatamente scartata, perché “non farebbe i conti con la mobilità dei grandi capitali”, che volerebbero all’estero e così farebbero diminuire la massa del risparmio disponibile in Italia.
Si dimentica, volutamente, che ben poca della ricchezza è in pochi grandi capitali, e si dimentica, sempre volutamente, che lo Stato non è un’azienda, ma dispone di leggi, di forza pubblica, di tribunali e di carceri. Rendere l’esportazione di capitale un reato penale, con sanzione proporzionale all’entità del reato, è un deterrente molto efficace; ed evidentemente lo ritiene anche chi scrive contro la patrimoniale, perché ha ben cura di non citare mai questo aspetto. Ma in un paese dove raramente un falso in bilancio colossale comporta una pena adeguata questo è perfettamente coerente. In uno Stato guida del neoliberismo, come gli USA, questi reati sono penali; e in una società carceraria come quella USA, con una percentuale impressionante di detenuti e sorvegliati e pene pesantissime effettivamente applicate, il deterrente funziona.
Un aspetto concreto che ostacola questa soluzione è che molta della ricchezza patrimoniale italiana è “non liquida”: ci sono persone che dispongono teoricamente di cospicui patrimoni, ma realmente di bassi redditi, e dovrebbero “liquidare” parte degli immobili per pagare le imposte; azione in molti casi impossibile (non è facile vendere castelli e tenute agricole in tempi brevi, e neanche medi, senza svenderli). Le soluzioni per posticipare l’incasso ma garantendolo, ad esempio autorizzando la conversione dell’imposta in debito (con tasso d’interesse pari a quello medio del debito pubblico) che dovrà essere saldato all’atto della successione, sono diverse; molte soluzioni sarebbero ipotizzabili, ma occorrerebbe un consenso politico impossibile con il governo attuale e con quelli possibili in Italia nei prossimi anni; quindi restano non realizzabili.
La terza soluzione (puntare su ulteriori bonus) elude due vincoli fondamentali.
Il primo è meramente contabile: se le risorse per i bonus derivano da tasse, o da una riduzione della spesa pubblica, l’effetto sulla domanda non può che essere nullo perché quel che entra in una tasca alle famiglie povere esce, inevitabilmente, dall’altra. Se il bonus viene finanziato da un aumento del deficit pubblico (e non si può fare oggi), è difficile che i mercati finanziari non ne tengano conto con un nuovo aumento dello spread. Poiché la strada dell’aumento del debito pubblico è chiusa, l’unica possibilità per finanziare il decremento della pressione fiscale sui redditi bassi (perché questo, e non altro, sono i bonus) sarebbe incrementarla sui redditi alti; il che certamente, con l’attuale coalizione di governo, non è realizzabile.
Il secondo vincolo è sostanziale, e non è ancora emerso a sufficienza: la continua erosione dei redditi bassi rende sempre più necessario, anche solo per consentirne la sopravvivenza, abbassare la pressione fiscale sulle classi povere. Il “bonus”, usato per raccapezzare voti, è in realtà un atto dovuto necessario per recuperare reddito disponibile; ma il “bonus” serve solo a non far diminuire i consumi ancora più rapidamente. Modifiche alla curva delle aliquote IRPEF dovrebbero essere ben diverse da quelle scelte da questo Governo, ma al momento sono impossibili.