Al decimo anno dall’inizio del sanguinoso conflitto siriano, il paese continua a versare in una condizione di estrema insicurezza, che comporta elevati bisogni umanitari; e questo nonostante nel 2020 la situazione sul campo sia cambiata, con il governo siriano che ha consolidato il controllo su vaste aree di territorio tra cui Homs, Ghouta orientale, Damasco meridionale e Daraa. Ha preso ieri il via la Conferenza internazionale sulla Siria, organizzata per il quinto anno consecutivo dall’Unione Europea. La conferenza, a cui prendono parte centinaia di delegazioni siriane ed estere, ha lo scopo di ribadire il sostegno dell’Unione e della comunità internazionale nel suo complesso, al processo di pace e ricostruzione del mediterraneo orientale, sollecitando gli attori coinvolti nella questione ad impegnarsi nei negoziati politici sotto l’egida dell’Onu, e a favorire le condizioni ottimali per portare avanti il dialogo tra le varie componenti della società civile siriana. Nel corso della giornata di ieri, si è tenuto uno degli incontri più significativi della conferenza, la riunione ministeriale, che ha visto seduti allo stesso tavolo i rappresentanti dei paesi membri dell’Ue e degli altri paesi coinvolti nella questione siriana.
Naturalmente gli obiettivi in discussione vanno a coadiuvare gli aspetti più strettamente umanitari e di emergenza. La guerra civile iniziata nel marzo 2011, con l’ondata di proteste contro il regime del presidente Bashar al-Assad, ha provocato ad oggi, circa 384mila morti e 11 milioni di profughi, spingendo l’80% della popolazione sotto la soglia di povertà e distruggendo il futuro di intere generazioni di bambini che ad oggi non sanno nemmeno com’è vivere senza la guerra. Secondo le stime di Save the Children, solo nel 2020, 1.454 sarebbe il numero dei bambini rimasti feriti o uccisi a causa delle violenze, e oltre 2.600 violazioni commesse nei confronti dei diritti dell’infanzia sono state riconosciute. La situazione nel paese è altalenante; basti pensare che l’ultimo picco di violenze si è raggiunto nel vicino 2019, nel nord-ovest del paese, e anche oltre i fronti nord-occidentali, l’intensificarsi dei bombardamenti, degli attacchi aerei e dei combattimenti via terra, ha provocato la morte di centinaia di feriti, e lo sfollamento di più di 850.000 persone, ostruendo i corridoi umanitari diretti alle regioni di Hama, Idlib meridionale e Aleppo occidentale.
Il concatenarsi di tristi vicissitudini ha negli anni messo in ginocchio un paese che al momento dovrebbe essere ricostruito da zero, e a gravare su questa situazione è stata la pandemia di Covid-19; un pericolo abnorme in contesti quali i campi profughi, il cui sistematico sovraffollamento costituisce un fattore di rischio molto alto per il propagarsi di focolai, soprattutto a fronte di uno scarso approvvigionamento di medicinali e soprattutto di respiratori e posti nelle terapie intensive negli ospedali limitrofi. Fino a settembre 2020, si contavano 30 letti nell’unità di terapia intensiva nel nord-est della Siria, appena 10 respiratori per adulti e 1 respiratore per bambini; una situazione insostenibile se pensiamo che i nostri enormi sforzi per ospedalizzare e rendere operative nuove unità di terapia intensiva, nei momenti più oscuri dei picchi pandemici, sono sembrati quasi vani.
(Foto di copertina e foto prima di Roberto Pedron foto seconda dal web)