Dopo 11 giorni di estenuanti tensioni sul confine israelo-palestinese, con un bilancio di 232 vittime tra i palestinesi e 12 tra gli israeliani, il cessate il fuoco intervenuto tra le parti in conflitto e mediato dal vicino Egitto, ha segnato un significativo punto di partenza per la necessaria ricostruzione della Striscia di Gaza, dove i bombardamenti israeliani hanno provocato danni per un ammontare di 150 milioni di dollari, a cui si aggiungono i 38 milioni richiesti dall’Unrwa per prestare immediata assistenza ai 70 milioni di sfollati, che si sono ritrovati senza casa da un giorno all’altro e faticano ad approvvigionarsi di viveri e medicinali a causa del blocco dei principali valichi che sono stati progressivamente ripristinati. Lungi dal voler sottostimare l’importanza del cessate il fuoco, esso rimane pur sempre un fragile accordo di natura politico-militare retto dalla mutua osservanza, ma che non trova una soluzione alle questioni alla base della conflittualità latente. La precarietà della sospensione dei combattimenti sussiste nel fatto che una piccola violazione da parte di una delle fazioni ricondurrebbe la situazione al punto di partenza.
L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, della destra nazionalista, ha infatti tenuto a specificare che «la realtà sul campo di battaglia determinerà il proseguo della campagna [militare]», alludendo quindi all’eventualità di una ripresa dell’offensiva se si dovessero presentare le circostanze. Le questioni rimaste aperte sono i conflitti più profondi dietro ai fattori detonatori del conflitto, ovvero lo status quo della spianata delle Moschee, messo in dubbio episodicamente dalla presenza israeliana, senonché il problema degli sfratti e degli insediamenti illegali, legati al tema del “diritto di ritorno”, riconosciuto agli israeliani da una legge del 1970, a cui essi possono appellarsi per recuperare il possesso delle case perdute nel 1948 durante la prima guerra arabo-israeliana. Ciascuno a suo modo sostiene di aver vinto la propria battaglia.
Netanyahu infatti è soddisfatto per i risultati ottenuti sul piano militare contro i bersagli di Hamas, il quale era riuscito ad ampliare il suo arsenale grazie all’appoggio di Siria ed Iraq, e del Jihad Islamico, avendo colpito diverse fabbriche di armi e danneggiato l’estesa rete di tunnel che si estende sotto la Striscia. Dal canto suo Hamas ha giovato del conflitto per consolidare la propria posizione politica interna rispetto alla moderata Fatah. Intanto Abu Mazen, alla stregua di un lungo colloquio con il segretario di Stato Antony Blinken, ringrazia gli Stati Uniti per il sostegno prestato allo Stato di Palestina: “Speriamo che il futuro sia pieno di attività diplomatiche guidate dagli Stati Uniti e dal Quartetto (che include anche Onu, Ue e Russia), al fine di raggiungere una soluzione giusta e globale basata sul diritto internazionale“. Aspirazioni a cui Blinken risponde affermando che gli Usa si oppongono “ad azioni unilaterali che possano minare le prospettive per una giusta e durevole pace in Medio Oriente, […] che queste siano attività di colonie, demolizioni di case, annessioni di territori, istigazione alla violenza o compenso per individui che commettono atti di terrore“.