AGGREDITA UNA PATTUGLIA ALLA STAZIONE DI MILANO: ARRESTATO IL RESPONSABILE

Dietro il folle gesto, una drammatica storia di degrado ed emarginazione

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Alle 20:06 di giovedì sera, un giovane armato di coltello ha aggredito una pattuglia all’interno della stazione Centrale di Milano, ferendo lievemente due militari dell’Esercito e un agente della polizia ferroviaria (Polfer). Come emerso dalle immagini delle telecamere di sorveglianza, il 20enne stava attraversando un corridoio del piano rialzato della stazione, dirigendosi verso il bar Segafredo, quando è stato fermato dagli addetti alla pubblica sicurezza per un normale controllo. I tre agenti - insospettiti dagli atteggiamenti del ragazzo, che “teneva una mano nella tasca della felpa come se nascondesse qualcosa” – hanno chiesto al giovane di mostrare i documenti; quest’ultimo, senza dire una parola, ha estratto il coltello, scagliandolo ora verso uno dei due soldati, ora verso il poliziotto. “Mi sono salvato solo perché sono balzato indietro” ha spiegato l’agente della Polfer, colpito a pochi centimetri dall’omero. Le altre coltellate hanno ferito uno dei due soldati alla giugulare, mentre il secondo militare è rimasto quasi totalmente illeso. Nonostante le lesioni, i tre sono riusciti a immobilizzare nell’arco di circa 8 secondi l’aggressore, immediatamente arrestato con l’accusa di tentato omicidio da un’altra pattuglia della Polfer. Al momento del fermo, il giovane è stato colto da malore, ma potrebbe essersi trattato di una mera messa in scena. Fortunatamente, nessuno degli agenti verserebbe in gravi condizioni: il caporalmaggiore di 34 anni, colpito solo di striscio, è stato medicato alla spalla destra e dimesso verso la mezzanotte di giovedì; il poliziotto è stato dimesso dal Fatebenefratelli ieri mattina; il militare ferito alla giugulare, appena 21enne, è ancora ricoverato all’Ospedale Luigi Sacco, ma non sarebbe in pericolo di vita.

cms_6295/2.jpgIl giovane aggressore aveva in tasca un altro coltello da cucina, che avrebbe certamente estratto nel corso della colluttazione se gli agenti non l’avessero immobilizzato, spingendolo a terra. Sebbene sprovvisto di documenti, il 20enne è stato facilmente identificato dalla polizia: si tratta di Ismail Tommaso Ben Yousef Hosni, italo-tunisino già noto alle Forze dell’Ordine per i tanti reati minori commessi, dallo spaccio di droga all’interruzione di pubblico servizio, passando per l’uso di distintivi falsi (spesso indossava la placca identificativa della Polizia di Stato). Ismail bazzicava spesso dalle parti della stazione, cacciandosi il più delle volte in qualche guaio e spacciando sostanze stupefacenti. Da qualche mese, però, era diventato particolarmente schivo: indossava sempre la solita felpa nera, con il cappuccio calcato sulla fronte; attaccava briga con chiunque gli rivolgesse la parola, forse sotto l’effetto di sostanze stupefacenti; aveva cominciato a farsi crescere la barba, indizio che più di tutti conduce alla pista della radicalizzazione. Saranno le indagini, condotte dalla Digos e da un pool antiterrorismo, a chiarire le motivazioni del folle gesto. L’ipotesi più accreditata è certamente quella di matrice islamica: il profilo Facebook del giovane, oscurato dopo i fatti di giovedì, pullulava di video e immagini inneggianti all’Isis. Stando alle parole degli inquirenti, sarebbero in corso verifiche informatiche volte a ricostruire la rete di conoscenze del 20enne e i possibili collegamenti con il Califfato.

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Nelle ultime ore, gli inquirenti hanno ricostruito alcuni aspetti della sua quotidianità; ne è emerso un quadro ben poco edificante, caratterizzato dal degrado e dall’emarginazione. I genitori di Ismail, un’italiana di origini campane e un tunisino, sono entrambi pregiudicati: la donna ha trascorso 7 anni in carcere per violenza privata, maltrattamenti e atti sessuali con minori, mentre il marito è stato sovente accusato di stupro, ricettazione, danneggiamenti e furto. Il giovane, nato a Milano, ha probabilmente vissuto un’infanzia di stenti e violenze, privato dell’affetto di quei genitori sempre impegnati nella lotta contro la Giustizia. Tutt’oggi, pare che la coppia non riservasse al figlio alcun tipo di attenzioni: benché il ragazzo non tornasse a casa da settimane, i due non avrebbero svolto alcuna ricerca, né avrebbero tentato di contattare il giovane per accertarsi del suo stato di salute. “Sono solo e abbandonato”, queste le uniche parole pronunciate da Ismail nel corso del primo interrogatorio. Astuto vittimismo o reale richiesta d’aiuto? Solo un esperto può essere in grado di stabilirlo con certezza, ma di certo le condizioni di vita del 20enne non hanno favorito uno sviluppo sano ed equilibrato della sua personalità. Le origini islamiche del giovane aggressore, come spesso accade, fanno sì che l’opinione pubblica dimentichi facilmente l’intrinseca essenza umana del colpevole, etichettandolo come immigrato ed estendendo una serie di caratteristiche negative all’intera categoria. Con la vista appannata dalla nebbia del pregiudizio, non ci si rende conto delle dinamiche psicologiche, dei contesti socio-culturali e delle condizioni familiari retrostanti. Sebbene accomunati dallo stesso grado di drammaticità, ogni caso è diverso da tutti gli altri, perché prodotto da una serie di variabili tutte “umane”, non inscrivibili negli stereotipi che, purtroppo, dominano ancora la nostra società; dunque, lungi dal giustificare il colpevole, sarebbe opportuno indagare sui contesti di disagio sociale e delinquenza che si annidano non solo dei quartieri tipicamente islamici delle grandi città, ma anche nelle periferie a maggioranza italiana, dove il pericolo della criminalità giovanile è sempre in agguato. Sanare situazioni di questo genere contribuirebbe certamente a debellare anche il rischio radicalizzazione dei tanti islamici residenti nel nostro Paese: spesso ci si avvicina all’Isis per disperazione, per dare senso ai propri giorni vuoti, fatti di disagio, solitudine, abbandono totale. Per non soccombere, ci si immola a favore di ideali apparentemente giusti e “nobili”, magari allettati dall’opportunità di una vita migliore, promessa dal primo affabulatore di turno. E’ un circolo vizioso che non conosce etnia né religione: la fragilità è una caratteristica iscritta nel corredo genetico di ognuno di noi, implicita conseguenza dell’essere uomo. La debolezza dell’anima ci rende tutti passeggeri dello stesso vascello, in preda alle acque tumultuose della vita.

Federica Marocchino

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