ALDO MASULLO,SUL CARATTERE EMOZIONALE DELL’ESISTENZA UMANA (I^PARTE)

L’opinione del filosofo

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Introduzione: Aldo Masullo: Per un’etica attiva della salvezza

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Filosofo morale, Aldo Masullo (+2020) è profondamente impegnato a fondare un’“etica attiva della salvezza”, come recita un suo importante volume: Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza (1995). Il pensiero dominante di Masullo è una delle questioni filosofiche per eccellenza: il tempo e l’intreccio dei tempi.

Il percorso che viene compiuto è storico - Aristotele e il cambiamento destabilizzatore, Wolff e la non-razionalizzabilità del “repentino”, Heidegger e l’essere-nel-mondo -, arricchito di una analisi critica, che conduce ad un originale apporto teoretico, che non si limita a dire il tempo in rapporto al proprio significato - e quindi dal punto di vista meramente cognitivo -, ma a rivelarne le connessioni con il vissuto e con il patico -- ossia a rivelarne il senso.

Si scopre qui l’origine della paticità – l’insostenibile e variamente occultata tensione dell’assoluta differenza - tra l’essere e il nulla, al cui irrompere si usa dare il nome di “tempo”, ossia, la tensione di fondo dell’e-sistere, graficamente segnalabile con il trattino che scinde/lega il desiderio di una stabile identità (sistere) e l’assillo della martellante differenza eiettiva («e», da «ek», «ex»).

Nella paticità ogni volta, le emozioni si “umanizzano”, da fatti naturali si (ri)generano in prove umane; in umana anzi si rigenera la vita tutta, da semplice vita vivente si converte in vita vissuta. Nell’esplodere della drammaticità dell’e-sistenza, l’oscuro avvertimento che l’identità della coscienza di sé dura soltanto attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi, scatena la “proto-emozione”, l’emozione originaria.

Il progetto filosofico di Masullo è proprio quello di mettere al centro quel carattere emozionale, o patico come lui lo chiama, che accompagna la conoscenza umana. All’origine dell’"emotività" - la tensione insostenibile e variamente nascosta della differenza assoluta tra l’essere e il nulla, a cui diamo il nome di "tempo", cioè la tensione nascosta dell’e-esistenza -, il trattino mostra graficamente la faticosa il desiderio di un’identità stabile (io esisto) e il tormento della martellante differenza espulsiva ("e", da "ex"). Nell’“emotività” le emozioni occasionali vengono “umanizzate”: la vita si converte da semplice “vita vivente” in “vita vissuta”.

La vita, come vita vissuta, non è ’nel tempo’, non ha sequenza cronologica, ma è ’tempo’. La vita è infatti sempre pienezza e fuga. Pienezza del presente che siamo e fuga del presente che va, che si dissolve, nelle pieghe del divenire e nella sostanza della materia che cambia. Il senso metafisico conferisce piena realtà al divenire. L’esistere è caratterizzato dal cambiamento e il tempo viene primariamente esperito, sentito e patito, anche se non può essere compreso dal discorso oggettivante, in quanto si manifesta come perdita, come assenza, come ferita, che concerne direttamente il soggetto. Se l’inizio della percezione di sé si presenta come perdita di sé, allora il tempo si divide e cambia simultaneamente.

Se il tempo è l’irreversibilità di una perdita, di una separazione, allora il desiderio è l’aspirazione alla compensazione, alla ricostituzione di ciò che non si possiede più. Tuttavia, ogni riparazione, per il fatto di essere tale, è destinata al fallimento, all’inadeguatezza. L’esistenza è allora sentire, soffrire, in ogni momento, una perdita irrevocabile che il desiderio cerca inutilmente di recuperare. L’E-esistenza mira, infatti, a ciò che non le appartiene, o che le appartiene come irrimediabilmente perduto. Il tempo è “ritmo”, “misura affettiva” del cambiamento, senso di destabilizzazione, “sofferenza” come dolore per la vita, che si presenta come desiderio di essere protetti dal cambiamento per sempre.

Dimorare nel tempo, quindi, non è una fuga illusoria dalla rapidità del cambiamento, trovando riposo in una magica immobilità, ma addentrandosi nell’e-esistenza, essa viene incessantemente vissuta come destabilizzazione. Le entità completamente naturali sono coinvolte nel cambiamento; anzi, sono cambiamento, e l’essere umano è cambiamento, come qualsiasi altra entità.

Il cambiamento può manifestarsi come "imprevisto", secondo Masullo, o come grazia o disgrazia. In entrambi i casi si sperimenta irreversibilità e contingenza - irriducibili a qualsiasi riferimento a priori -, che, a loro volta, rivelano il senso della nostra esistenza, trincerato in un fondo oscuro, impossibile da gestire. Il fenomeno dell’"imprevisto" in Masullo non ha potere cognitivo o semantico, ma solo affettivo o emotivo.

Nella vertigine emotiva, sotto la sovranità del tempo, ci troviamo sempre all’inizio, e quindi soli, nel deserto di un inizio assoluto. Tutto si ripete; nulla dura. Ci sono infinite ripetizioni, ma nessuna continuità, come afferma la poesia di Montale: «Ahimè, non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani!».

Tempo e paticità

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Il tempo autentico non è un’idea, un qualsiasi oggetto della mente, ma un fatto, l’emozione originaria dell’esistenza, la passione assoluta.È il senso auto-affettivo della frattura irreversibile,l’esperienza della discontinuità insanabile della vita, l’irruzione traumatica della contingenza’’.

L’esistere è caratterizzato dal cambiamento e il tempo viene primariamente esperito, sentito e patito anche se non può essere compreso dal discorso oggettivante in quanto si manifesta come perdita, come assenza, come ferita, che concerne il soggetto. Se l’inizio d’ogni sentire è l’avvertimento di sé, anzi di perdita di sé, allora il tempo è simultaneamente separazione e cambiamento. Infatti “Il senso con cui lo si vive, è il pathos del cambiare in quanto cambiare, ovvero il tempo nella sua purezza”. “L’irreversibilità del tempo presuppone la discontinuità del cambiamento e con ciò l’assoluta contingenza”.

Infatti “il senso in cui viviamo il tempo, è il pathos del cambiamento come cambiamento, cioè il tempo nella sua purezza”. E tuttavia, l’essere umano, sebbene pervaso dal cambiamento, può "abitare" nel tempo. “Solo scegliendo di abitare il tempo, l’uomo si ritrova finalmente in se stesso”. L’approccio critico di Masullo rende l’uomo consapevole delle condizioni per sospendere il razionale discorsivo, e nell’andare in fondo a se stesso, nella sua incessante nascita, l’uomo ascolta il sordo grido di morte che si chiama tempo, nonché la voce sommessa della contingenza assoluta.

Dimorare nel tempo”, dunque, non è un illusorio scampare alla rapidità del cambiamento, trovando riposo in una magica immobilità, ma il calarsi a fondo nell’e-sistere, ossia nella destabilizzazione stessa, incessantemente vissuta. Tutti gli enti naturali sono immersi nel cambiamento, anzi sono cambiamento, e l’uomo come ogni altro. Il tempo è “misura” affettiva di cambiamento, senso della destabilizzazione, “patire” come pena per la vita che, ogni volta, si perde, e come desiderio di riaverla tutt’intera, per sempre al riparo dal cambiamento.

Il cambiamento può manifestarsi nel “repentino’’, secondo Masullo, o come “grazia” o come “disgrazia” e in entrambi i casi, indeducibili da qualsiasi riferimento a priori, si sperimenta l’irreversibilità e la contingenza che, a loro volta, svelano il senso del nostro esistere poggiato su un fondo oscuro e impossibile da gestire. Il fenomeno del “repentino” in Masullo non ha potenza cognitiva o semantica, ma soltanto affettiva o patica.

Ma il “cambiamento repentino” è salto ed è destabilizzante; pertanto, mostra un tempo senza grandezza e senza misura, un tempo originario e puro. Il repentino non abita nessun luogo ed è indeducibile, è vera e propria innovazione. È quindi inspiegabile perché non si inscrive in un continuum.

La paticità esprime la costitutiva difettività dell’e-esistenza vissuta. Come fenomenalità di tutti i fenomeni, la paticità sfuma dall’una all’altra di tre tonalità emotive: la pena del “sé lacerato” dalla violenza del tempo, il timore del “sé assoggettato” al capriccio del caso e la vergogna del “sé esposto” allo sguardo dell’altro. “La paticità originaria del tempo come dolore della perdita rimbalza nel desiderio come struggente passione del ripristino e nel tremore come inquietante sentore della contingenza. Il dolore per la rottura della mia continuità si converte nel desiderio del suo ripristino. Ma la continuità spezzata è l’irruzione della contingenza. Perciò il desiderio è esacerbato dal malessere dell’incertezza”.

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Così, il vissuto del tempo si rifrange nei molteplici cromatismi emotivi – nella sofferenza per l’identità perduta e ciò che è abituale, sconvolto, nel tremore del destino, nello spavento del fondamento crollato –, ma intero fiammeggia nell’inquietante sfida dell’inizio, nel muoversi verso il nulla – il vuoto del futuro-, a partire dal nulla il vuoto del passato -.
Vuoto il non-ancora, svuotato il non-più, il nulla è dinanzi come dietro
. Eppure, Montale, con poetico stupore, percorre l’algido filosofema di Heidegger, sussurrando: “Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco”. Si scopre qui l’origine della paticità – l’insostenibile e variamente occultata tensione dell’assoluta differenza incuneata tra l’essere e il nulla, al cui irrompere si usa dare il nome di “tempo” – ossia, la tensione di fondo dell’e-sistere, graficamente segnalabile con il trattino che scinde/lega lo strenuo desiderio di una stabile identità (sistere) e l’assillo della martellante differenza eiettiva («e», da «ek», «ex»).

Nella paticità ogni volta, le emozioni si “umanizzano”, da fatti naturali si (ri)generano in prove umane; in umana anzi si rigenera la vita tutta, da semplice vita vivente si converte in vita vissuta. Nell’esplodere della drammaticità dell’e-sistenza, l’oscuro avvertimento che l’identità della coscienza di sé dura soltanto attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi, scatena la “proto-emozione”, l’emozione originaria.

La rottura fenomenologica, che si produce con lo spostamento dell’attenzione filosofica dall’ “idealità dell’intenzione” alla “fattualità dell’affezione”, ora appare radicalizzata. Affiora il chiarimento che la “fattualità”, messa in gioco dall’auto-interrogazione dell’uomo, non riguarda l’“affezione”, pur sempre orientata alla transitività e relatività del “conoscere”, bensì l’“emozione”, la vita tutta concentrata nell’intransitiva e assoluta purezza del suo senso immanente.

Se il tempo è l’irreversibilità di una perdita, di una separazione, allora il desiderio è l’aspirazione al risarcimento, alla ricostituzione di ciò che non si possiede più. Ogni riparazione, però, per il fatto d’esser tale, è destinata allo scacco, all’inadeguatezza. L’esistenza è allora il sentire, il patire, ad ogni istante, un’irrevocabile perdita che il desiderio cerca inutilmente di recuperare. L’esistenza è infatti tesa verso ciò che propriamente non le appartiene, o che le appartiene come irrimediabilmente perduto.

Il discorso critico che Masullo avvia offre alla coscienza le condizioni razionali perché essa sospenda la razionale discorsività e ascolti nel fondo di sé, come suo incessante nascere, il sordo grido di morte che si nomina tempo, e insieme la voce sommessa dell’assoluta contingenza. Se, in “Essere e tempo” Heidegger aveva cercato di trovare gli esistenziali, cioè le categorie universali e necessarie dell’esistenza umana, in ciò che universalizzabile e razionalizzabile proprio non è, l’umana affettività, il tentativo era destinato a fallire nell’ “analitica esistenziale”.

Essere filosofi in Masullo significa in gran parte saper cogliere e comprendere il tempo, significa riconoscere che la temporalità che siamo è la grazia stessa dell’essere: «La serietà della ragione - afferma Masullo -- trasfigura le lacrime del tempo nel sorriso della grazia». È il presentarsi della grazia, come qualcosa che non può essere razionalizzata e che paradossalmente rende più forte la ragione, che è disposta ad accoglierla e ad ospitarla. Solo la grazia è in grado di cambiare il segno negativo della perdita nel segno positivo della “speranza”, la quale risveglia e attiva la responsabilità, a sua volta, capace di rispondere all’appello delle possibilità che provengono dal futuro e che attendono di essere accolte in quanto gratuite.

Ogni novità ha per gli umani il sapore dell’inedito, del futuro che si apre, ma anche l’inquietudine di una destabilizzazione del presente che prepara, indica e significa la perdita finale che inevitabilmente il futuro porterà con sé. È per questo che gli umani desiderano e temono ogni novità. Trasformare il timore in desiderio significa accogliere il futuro per ciò che esso è qui e ora, per il suo essere kairos, grazia splendente dell’ora e del sempre.

Fine della prima parte

Gabriella Bianco

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