Ansia e depressione, la patologia è social

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Internet avrà tra i suoi tanti pregi certamente quello di aver come più volte ricordato, rivoluzionato il concetto di fare comunicazione. Aggiungerei però a questo concetto che è una sua peculiarità indiscutibile, un altro dato di fatto, ovvero la gran mole di discussioni sollevate ogni qualvolta si parli di rete e, in particolar modo negli ultimi anni, di social. Fioriscono e prendono forma dappertutto iniziative editoriali, corsi di laurea e scolastici per studenti e per insegnanti, dibattiti televisivi, convegni, tavole rotonde, tutte buone occasioni per parlare di cosiddette nuove tecnologie, che poi così nuove ormai non lo sono più, dato ormai sia passato quasi un trentennio dall’avvento in pianta stabile nelle nostre vite della rete. Luoghi comuni e paragoni anacronistici con la sorella televisione si sprecano, dimenticando spesso la pervasività e la diversa natura di internet rispetto ai suoi antecedenti storici. Innanzitutto oggi ci troviamo a che fare non più con un medium come lo si intendeva nel secolo scorso, ma con una piattaforma multimediale che ha fatto della convergenza il suo senso comunicativo.

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Vi è poi un altro dato di fatto, cioè un paradigma epistemologico ancor oggi in fieri, una forma del sentire che viene e arriva prima della ragione. Su queste basi e di fronte a domande ancora senza una risposta esauriente, appare quasi naturale mutatis mutandis, tornare a chiedersi e far sedere sul banco degli imputati ancora una volta i tanto discussi e vituperati social media. La Royal Society for Public Health britannica, insieme allo Young Health Movement, ha ultimamente svolto un’indagine su circa 1500 giovani inglesi tra i 14 e i 24 anni e sull’uso che essi fanno dei social media. È emerso che al di là dei pregiudizi e delle cronache degli ultimi tempi, a essere più deleterio per la salute mentale dei giovani sudditi della regina non sarebbe né Facebook, né Twitter, né Snapchat e neanche YouTube ma Instagram. La piattaforma di condivisione di foto e video, arricchitasi di altre funzioni come le Storie, sarebbe infatti la peggiore per quello che riguarda la proliferazione di contenuti problematici e disturbanti, come per esempio quelli pro anoressia fino ai fenomeni giovanili di autolesionismo. Instagram appare dunque come un giano bifronte: da un lato un’app positiva per l’espressività, dall’altro è percepita negativamente per ciò che riguarda l’ansia, la depressione e per la nota Fomo, la “fear of missing out”, la sindrome da esclusione che getta le persone nel panico quando non sono connesse e quando non possono seguire gli aggiornamenti sulla loro bacheca.

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La notizia di per sé non è nuova per l’opinione pubblica e per quella di rete, in quanto già uno studio dei pediatri americani di circa cinque mesi fa aveva sottolineato come depressione e condizioni di disagio psichico possano essere fomentate da una continua pressione ad autorappresentazioni poco realistiche del proprio corpo e da clima generale di continua esaltazione dato da profili molto popolari, seguiti da milioni di utenti. L’accusa degli esperti e dei ricercatori si rivolge in particolar modo a quelle piattaforme, Snapchat e Instagram, che fanno dell’immagine il fulcro del loro successo. In definitiva sembra accertato che i social media e la rete neurale del nostro cervello dialogano tra loro e tendano a influenzarsi a vicenda. È necessario dunque puntare sull’educazione all’uso dei social e da parte loro gli stessi social media dovrebbero sempre più impegnarsi a segnalare immagini non esemplari per gli adolescenti. Perché la rete non è la televisione e perché oggi l’individuo vive molte vite parallele tutte rette sulle fragili gambe delle emozioni.

Andrea Alessandrino

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