C’E’ DEL MARCIO (SECONDO CHANNEL 4) DENTRO L’ULTRA FAST FASHION

L’ipocrisia dei fashion editor

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Il documentario d’inchiesta di Channel 4 dal nome: “Shein Untold: Inside The Shein Machine”, realizzato da Iman Amrani in due fabbriche di Guangzhou, ha portato alla luce tutto quello che probabilmente sapevamo già, ma che non volevamo vedere sul colosso cinese dell’ultra fast fashion. Shein ha lasciato, in pochi anni, al palo la concorrenza di altri colossi del fast fashion come H&M, Zara, Mango e surclassando, nel 2021, Amazon negli Stati Uniti per quantitativo di vendite. Le strategie di Shein per battere la concorrenza sono: il passaggio dal fast all’ultra fast fashion, la sua offerta sconfinata di articoli (circa un migliaio di capi nuovi al giorno disponibili sul sito) che spazia dall’abbigliamento, agli accessori, dal make up, all’arredamento, tutto a prezzi bassissimi. Shein è in grado di proporre nuove collezioni in pochi giorni, mettendo sul sito decine e decine di capi ed incentivando all’acquisto compulsivo tramite codici sconto e promozioni alettanti. La telecamera nascosta di Channel 4 ci ha svelato l’inferno delle lavoratrici, un inferno fatto di diciotto ore di lavoro al giorno, l’obbligo di portare a termine cinquecento capi al giorno, nessuna pausa, la pausa pranzo usata dalle lavoratrici per lavarsi i capelli, uno stipendio di cinquecentocinquanta euro al mese, dove il primo stipendio verrebbe trattenuto, per ogni errore commesso durante la realizzazione dei capi verrebbero trattenuti i due terzi della paga giornaliera, con un solo giorno al mese di riposo. Dopo l’uscita del documentario il colosso cinese ha risposto con il solito comunicato stampa: “Qualsiasi non conformità a questo codice viene gestita rapidamente e porremo fine alle collaborazioni che non soddisfano i nostri standard. Gli standard Shein’s Responsible Sourcing vincolano i nostri fornitori a un codice di condotta basato sulle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro e sulle leggi e normative locali, comprese le pratiche di lavoro e le condizioni di lavoro”. Inoltre il portavoce di Shein ha dichiarato l’intenzione di chiedere a Channel 4 maggiori informazioni per poter indagare meglio sull’accaduto e di voler attuare controlli a sorpresa per verificare le effettive condizioni di lavoro delle dipendenti.

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Secondo un’indagine europea il mondo del fast fashion incide per il dieci per cento sulle emissioni globali con quintali di poliestere buttato nelle discariche nate nei paesi più poveri. Ma se i colossi del fast fashion hanno cominciato a centellinare le collezioni, ad usare poliestere riciclato, ad orientarsi verso una produzione di maggiore qualità, a confezionare i capi con imballaggi di carta, Shein continua nel solco dell’ultra fast fashion, ad impacchettare, ogni singolo capo, in sacchetti di plastica, a produrre in quantità illimitata, a prediligere una scarsa qualità che causa un ciclo di vita brevissimo dei capi. Nella stessa indagine si scopre che solo l’uno per cento dei capi acquistati venga riciclato e che, in media, un europeo getta undici chili ci capi ed accessori nell’arco di un anno.

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Secondo me gli assi nella manica di Shein che lo ha portato ad essere il colosso indiscusso dell’ultra fast fashion sono l’influencer marketing e l’uso strategico di Tik Tok, il social più frequentato dalla generazione Z che, non a caso, è lo zoccolo duro dei consumatori più accaniti di Shein. Sino a quando ci saranno influencer che su Tik Tok proporranno haul video e codici sconto da proporre ai propri followers, sino a quando ci saranno influencer che realizzeranno unboxing che confrontano capi di Shein quasi identici a capi di Zara ed elogiando i prezzi notevolmente più bassi di Shein rispetto a quelli di Zara non ne verremo mai a capo e il colosso cinese continuerà nella sua crescita inarrestabile. Oggi, le mie colleghe, per cavalcare il pensiero collettivo si sperticano nel condannare l’acquisto fast elogiando la scelta del second hand e del poco, ma buono senza tenere conto di quanto ipocrita siano queste posizioni. La sottoscritta non è mai stata una persona politicamente corretta e sono convinta che sino a quando il made in Italy e i brand in generale saranno sempre più rivolti ad una fascia di consumatori con un’altissima capacità di budget il poco, ma buono diventa impraticabile. Sino a quando noi continueremo a scrivere articoli sui must have di stagione, su quale accessorio dovrebbe avere una fashion addicted per essere tale, il second hand diventa impraticabile. Chi siamo noi per fare i conti in tasca a chi ci legge? Chi siamo noi per giudicare chi acquista un capo low cost additandolo come un terrorista ambientale? Chi siamo noi per elevarci ad educatori del consumatore quando l’incentivo al consumo è insito nel nostro lavoro? La sottoscritta si tira fuori da questo gioco al massacro, amo il mio lavoro, amo le sue contraddizioni e non giudico chi ama la moda, ma non consta del budget adeguato per essere politicamente corretto. Ci siamo spinti troppo in là per tornare indietro? I brand di fascia media devono fare la loro parte cercando di contenere i prezzi che stanno aumentando in modo esponenziale, ma resettare il pensiero collettivo sull’apparire cool attraverso i tanti outfit è impresa alquanto ardua. La cinica verità è che il fashion system in generale e i fashion editor in particolare non lo vogliano veramente (vedi alla voce sopravvivenza), anche se sono rimasta solo io a scriverlo senza ipocrisie di facciata. Io continuerò ad informarvi, a scrivere di trend e fashion senza mai fare a chicchessia la predica su cosa debba o non debba acquistare, su come e quanto acquistare, questo è rimesso alla vostra coscienza e alla vostra sensibilità personale, economica ed ambientale.

T. Velvet

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