CONGO: L’OLOCAUSTO AFRICANO

Il silenzio a vent’anni dai genocidi, mentre è ancora giallo sull’uccisione di Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci

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È ancora giallo sulla morte dell’ambasciatore italiano a Kinshasa, Luca Attanasio, e del carabiniere Vittorio Iacovacci, che viaggiava con lui nel convoglio assaltato nella regione del Nord Kivu, diretti alla città di Rutshuru. Il rimpallo delle responsabilità intervenute nella vicenda, concentra plausibili dubbi sul tema della sicurezza. Dal nostro Ministero degli Esteri infatti, emerge la posizione per cui i funzionari italiani, viaggiando per conto del WFP, avrebbero dovuto poter contare sulle disposizioni fornite dall’Onu, la quale dal canto suo, fa leva sul fatto che la strada percorsa dal convoglio fosse stata considerata un percorso sicuro. Questa considerazione del tragitto che da Goma, capoluogo del Nord Kivu, risale fino a Rutshuru, non avrebbe però distolto le Nazioni Unite dal fornire auto blindate e pattuglie di caschi blu della missione Monusco, a scorta della delegazione del Consiglio di Sicurezza, guidata dal diplomatico belga, Axel Kenes, in viaggio lungo quella stessa strada, pochi giorni prima di Attanasio. Una concentrazione di forze inspiegabilmente dispendiose e non trascurabile per assicurare la sicurezza lungo un sentiero dichiarato sicuro. Lasciando quindi che a far luce sulle responsabilità effettive, sia l’azione degli inquirenti, riteniamo appropriato fare un punto della situazione congolese dell’ultimo ventennio, alla base dell’instabilità perpetratasi fino ad oggi.

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Un paese dilaniato da alcuni dei conflitti più sanguinosi della storia moderna, la Repubblica Democratica del Congo, dopo circa un decennio dai fatti, resta in balia di un ciclo di impunità, che trova le proprie ragioni nel mancato riconoscimento del violento trascorso storico, impedendo la riparazione e la riconciliazione duratura del paese. Si pensi infatti che a distanza di anni dagli efferati crimini sopravvenuti durante le due Guerre del Congo, non è ancora stato istituito un Tribunale penale internazionale, dedito all’imputazione dei responsabili. Il rapporto “Mapping”, pubblicato il 1° ottobre 2010 dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite sui diritti umani, offre un quadro complessivo dei crimini più gravi commessi nella RDC tra il 1993 e il 2003. Si tratta del periodo onnicomprensivo del genocidio dei Tutsi in Ruanda nel ’94, e delle successive Guerre del Congo che videro la furia genocida invertire i ruoli, con il massacro della popolazione Hutu, rifugiatasi in campi profughi creati imprudentemente dall’UNHCR nella regione del Nord Kivu, a ridosso del confine ruandese. Anni, quelli delle Guerre del Congo, in cui i civili Hutu furono utilizzati come scudi umani dagli ex miliziani del “FAR”- Armed Forces of Rwanda, responsabili del genocidio Tutsi. Guerre, quelle del Congo, a cui partecipano gli eserciti di ben 8 paesi diversi e in cui compaiono 21 gruppi irregolari, in molti casi mercenari, sovvenzionati da entità esterne.

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Il rapporto fu pubblicato, con lo scopo di ricostruire il contesto all’interno del quale ebbero luogo gli eccidi, e di contribuire alla creazione di un tribunale penale internazionale o di camere specializzate miste all’interno del sistema giudiziario congolese; speranze che sembrano state abbandonate negli archivi delle Nazioni Unite. L’interesse a silenziare il contenuto di tale rapporto è largamente condiviso da più parti: c’è in ballo la resistenza dei paesi limitrofi citati nel rapporto (Ruanda, Uganda, Burundi), in cui i presunti autori dei crimini perpetrati in Congo, continuano ancora oggi a ricoprire impunemente cariche pubbliche rilevanti; la volontà delle lobby responsabili di saccheggio e commercio illegale dei minerali, che hanno accompagnato o causato i crimini denunciati; e ancora la questione dei fondi internazionali vacanti, necessari per mettere in moto la giustizia di transizione. In tutti i casi, l’importanza del rapporto Mapping sta nella sua funzione di riconoscimento internazionale del martirio dei congolesi, dimostrato in maniera schiacciante dal ritrovamento delle fosse comuni nel 2005. Il “grilletto dell’Africa”, così come l’ha definito l’intellettuale francese Frantz Fanon. Il Congo per la sua estensione e per la sua posizione geografica, è un punto nevralgico di confluenza di interessi geo-strategici e geo-economici, che l’ha condannato ad una perenne destabilizzazione, da cui attori politico-economici esterni, traggono il privilegio lucrativo delle risorse del suo territorio. La ricchezza del Congo in termini di estrazione mineraria, con il 30% dei giacimenti di cobalto a livello globale, il 10% delle riserve mondiali di rame, un terzo delle riserve di diamanti, estesi giacimenti di uranio, zinco, manganese e tre quarti delle risorse mondiali di coltan, input indispensabile per la produzione di strumenti elettronici, lo ha reso la meta africana più attrattiva per investimenti esteri diretti.

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Nonostante ciò, considerando anche la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi nell’area protetta del Parco nazionale di Virunga, e la ricchezza mineraria della Valle del Rift, il Congo figura tra i paesi con il pil pro capite tra i più bassi del pianeta, al 190° posto su 193 nella classifica mondiale e al 175° posto dello Human development index dell’Onu. Da questo fattore si deducono due importanti implicazioni, la profonda disuguaglianza che caratterizza la società congolese, e il carattere predatorio che ha marcato la confluenza di interessi stranieri nel territorio; una presenza tutt’altro che mirata a favorire uno sviluppo sostenibile dello scacchiere africano, ma piuttosto alimentatrice di cleptocrazie e guerre sistematicamente internazionalizzate. La vicenda dei Trattati di Pretoria e di Luanda che obbligò le forze straniere a ritirarsi solo nel 2002, confermano l’interesse dei paesi occidentali a mantenere la propria presenza in pianta stabile sul territorio. Il triste accaduto che ha coinvolto l’ambasciatore e il carabiniere italiani, si inserisce quindi in un mosaico complesso e articolato che spiega che il senso di impunità comporta la reiterazione dei crimini; eppure al momento della volontà di fare chiarezza e di assicurare giustizia nemmeno l’ombra. Non ci resta che tirare le conclusioni che, come lascito dello spirito colonialista, dimostrano che non rientra negli interessi dei forti il benessere democratico di certi territori.

Federica Scippa

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