COPPIETTE (POLPETTE) DI ALESSIO
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Fino all’inizio del secolo scorso le polpette erano chiamate coppiette, forse perché ricordavano un modo di preparare la carne molto antico, descritto da Mastro Martino nel Libro de arte Coquinaria. La carne veniva tagliata a pezzi, della grandezza di un uovo, che a due a due erano tenuti uniti da una
sottile striscia di carne formando delle coppiette. Venivano cotte in padella inserendo tra i due pezzi una fettina di prosciutto per rendere la carne più morbida.
In seguito con il termine coppiette vennero indicate anche le strisce di carne secca (carne di cavallo in genere, di bufala nella comunità ebraica) condite con spezie abbondanti che venivano sgranocchiate nelle osterie per far scendere meglio le fojette di vino dei Castelli.
Le polpette erano già conosciute nell’antica Roma. Si preparavano sia con la carne che col pesce (spigole, seppie, gamberi…). Ne parlava Apicio, che le condiva con garum e pinoli e consigliava di cucinarle nel vino. Nei pranzi sfarzosi delle corti medievali venivano servite ripiene di pregiatissima cacciagione.
Nei secoli a seguire rappresentarono il modo migliore per riciclare l’allesso avanzato del pranzo della domenica.
LA CUCINA DELL’ANTICA ROMA (di Davide Maniaci, in “ilovefoods.it”)
Come facciamo a conoscere così bene la cucina dell’antica Roma? Oltre che dalle varie opere letterarie che, descrivendo la vita di tutti i giorni si trovano per forza di cose a dover parlare anche del momento dei pasti, anche per un libro, chiamato De re coquinaria (Sull’arte culinaria), scritto dal gastronomo Marco Gavio Apicio, probabilmente il primo libro di ricette di cui si abbia una conoscenza storica.
Apicio era un patrizio romano, estremamente ricco, vissuto durante l’epoca dell’Imperatore Tiberio (per intenderci: gli anni in cui sarebbe stato crocefisso Gesù).
Come molti suoi contemporanei di strato sociale similare era eccentrico e forse crudele: si raccontava che nutrisse le sue murene con la carne degli schiavi e che si sia ucciso dopo aver sperperato tutto il suo patrimonio.
Il suo ricettario in realtà non è un libro metodico e sistematico come ci si aspetta da quelli odierni, bensì una sorta di raccolta di appunti sparsi che testimoniano il grande amore che costui aveva per il mangiare ed il modo in cui quella cultura vedeva gli alimenti e i sapori in generale.
Sfogliandolo si nota subito come i Romani privilegiassero il pesce alla carne e come venisse data più importanza al condimento che alla proteina stessa: Roma era veramente il centro del mondo e lì era possibile reperire gli alimenti di ogni parte del mondo conosciuto, dagli aromi alla frutta ai vari tipi di animali. Spesso il piatto era giusto il pretesto per poterlo annegare in salse, dolci o salate, e provare sempre nuove combinazioni.
Protagonista assoluto del condimento romano era il garum: salsa liquida di pesce, forse di origine greca, ottenuta facendo fermentare (marcire) al sole le interiora di pesce azzurro che venivano poi salate e, in qualche modo, pressate per ottenere un liquido semitrasparente.
Attualmente sarebbe trovato disgustoso, ma i romani lo mettevano su tutto, spesso anche al posto del sale […]
Attualmente esistono due prodotti che possono vantarsi di essere o i discendenti di questa salsa così controversa o comunque dei parenti prossimi: la colatura di alici, considerata alimento da gourmet e prodotta nel Sud Italia, e la nuoc mam, la “salsa di pesce “ vietnamita che di sicuro si è sviluppata parallelamente, e non in sintonia, col garum ma che ha una lavorazione ed un odore (probabilmente) similare e soprattutto viene usata per la stessa ragione: insaporire gli alimenti al posto del sale.
Dicevamo, i Romani mangiavano soprattutto pesce e condivano in modo ricco, per così dire “barocco”: se non usavano il garum apprezzavano il mosto cotto e rappreso, chiamato defrutum, le spezie o un’altra salsa a base di aceto, pepe ed aromi chiamata oxygarum. Ma sarebbe stato troppo facile condire della carne di manzo: Apicio ci racconta che l’animale prediletto era, senza dubbio, il ghiro…Apicio lo preparava così: dopo che l’animale veniva ucciso, bisognava farcirlo con delle polpettine di maiale e con le interiora tritate del ghiro stesso insieme ai pinoli, al pepe, al garum (ovviamente) e alle foglie di silfio, una pianta ora estinta simile al finocchio selvatico.
In seguito andava cotto alla brace o in forno, e servito cosparso di salsa al miele.
Affiancate a ricette tutto sommato convenzionali, come la Terrina di crema di formaggio e pesce salato e la Zuppa di cipollotti secondo Lucrezio, sfogliando il libro del nostro gastronomo si possono imparare a cucinare il pappagallo arrosto o l’utero di scrofa ripieno e si può apprendere una tecnica molto particolare che vuole la carne cotta più volte: prima in acqua, poi nel latte, in seguito nell’olio ed infine in una sorta di salsa speziata[…]
I pasti principali degli antichi Romani erano tre: il lentaculum, il prandiume la cena. Gli equivalenti di colazione, pranzo e cena.
I primi due venivano considerati secondari e spesso uno dei due era proprio trascurato: non era raro che la colazione consistesse in un bicchiere d’acqua che accompagnava gli eventuali avanzi della cena precedente. Il pranzo prevedeva del pane con alimenti semplici come uova, formaggio, legumi o quel che rimaneva della preparazione del garum, ossia la poltiglia solida rimasta dopo la spremitura del pesce, chiamata allec o, da alcuni, liquame. La cena era il pranzo principale,e forse, per moltissime persone, l’unico.
Macinate la carne di lesso avanzata e sistematela in una casseruola assieme all’aglio, al grasso di prosciutto, alle uova, al parmigiano, alla mollica di pane, al prezzemolo, alla maggiorana, ai pinoli ed all’uva passa; insaporite di sale e pepe e mescolate bene.
Con il composto ottenuto formate delle palline di carne, passatele nel pangrattato e fatele friggere in olio abbondante finché presenteranno una doratura omogenea.
Si possono passare le polpette anche in farina, personalmente però concordo con quanto scritto da Ada Boni: ”C’è chi infarina queste polpette; ma il vero procedimento romano è quello di passarle nel pane grattato.
Dopo averle impanate si mettono in padella con abbondante strutto e si friggono di bel colore”.
Per molti, sottoscritto compreso, ci si potrebbe fermare qui; le polpette fritte sono una vera leccornia; una rosolatura croccante ed omogenea non teme concorrenza.
In genere però si preparano con il sugo.
Fate soffriggere in un tegame l’olio con gli odori, aggiungete la passata di pomodoro e, non appena giunta a cottura, fatevi insaporire le polpette per qualche minuto.
Venivano consumate abitualmente anche le polpette alla giudia, piatto classico della cucina ebraico-romanesca, dove la carne veniva mescolata con gli spinaci.
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