CUSTODI DELLA MEMORIA: MARCEL PROUST E SIMONE WEILL

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La realtà si forma soltanto nella memoria (…. I veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto. ...I ricordi non si spartiscono". Marcel Proust

“L’arte è rivelazione della memoria, un risorgere in noi del passato. Ma la rivelazione non può aver fuoco che in coloro che abbiano rinunciato a vivere attivamente”. Guido Morselli

cms_29754/1.jpgMarcel Proust ci racconta l’estetica del tempo e la metafora della memoria, il sentimento del tempo che si fa memoria.

Un sentimento che ha attraversato la letteratura del Novecento caratterizzata da metafore di straordinaria valenza estetica ed esistenziale.

Uno scrittore da non lasciare nell’oblio del tempo perduto, che si libera dalle cesoie dei ricordi, per farsi dimensione onirica del ritorno.

Uno scrittore che segna uno spartiacque tra l’ideologia del realismo e la desertificazione di una letteratura rappresentazione della cronaca, con una letteratura mistero, sogno, tempo, destino.

È intorno alla visione di tempo e di memoria. che l’opera di Marcel Proust ha offerto delle indicazioni non solo letterarie ma anche epistemologiche e “politiche” intorno alla visione di tempo e di memoria. Il rapporto tra tempo e morte è parte integrante del sentimento della memoria che trova, nella letteratura la maggiore tensione esistenziale. È la letteratura il sogno che scava nell’anima.

Lo scrittore Guido Morselli nel 1943 aveva pubblicato da Garzanti un saggio con delle riflessioni attente e delle indicazioni metodologiche significative proprio su Proust, un saggio che puntava ad un Proust antirealista dal titolo semplice “Proust o del sentimento”.

In una lettura di Proust all’insegna di una letteratura antiideologica cesellando quegli aspetti che appartengono alla tradizione, al valore della tradizione, al linguaggio come espressione di sentimenti: “La realtà in sé, esterna - osserva Morselli - non interessa Proust, e in arte il realismo non gli pare preferibile alla letteratura intellettuale, e a quella didascalica e programmatica. Non merita il nome di artista chi si contenta di ‘décrire les choses’, ‘de donner un misérable relevé de leurs lignes et de leur surface’ “.

La letteratura non è descrizione, non è rappresentare il reale né un ‘déchet d’expérience’ , un “residuo di esperienza”. Morselli individua immediatamente il cuore e l’anima di quelle metafore che sono la chiave di tutto. “La memoria in Proust -spiega Morselli- ha un valore particolare. Non gli serve per una pedissequa ricostruzione autobiografica: essa è, a suo modo, altrettanto creatrice in lui che presso altri la fantasia”. In Proust, “Ricordare è rimpiangere”, perché, come dice Oscar Wilde: “L’arte non rispecchia la vita, ma lo spettatore della vita”.

Ma Proust non è il solo cultore della memoria: custodi della memoria sono anche Boris Pasternak, Marianne Moore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Dante, Hugo von Hofmannsthal e Gottfried Benn, che invita a resistere, a leggere Giobbe e Geremia.

È grazie a loro che l’anima, sprofondata nella polvere dei tempi, può ricordarsi di sé stessa, è nelle loro opere che torna a vibrare una luce dai cui raggi l’orrore è trasmutato ed è redento in armonia geometrica e bellezza, una bellezza che perdura, immobile, nella Memoria, nel suo circuito ininterrotto e inesauribile, quasi invisibile, allora come oggi: fiore, stella, morte, danza.

Per non parlare dei versi di Leopardi con la sua “Silvia rimembri ancor…” della poesia “A Silvia”, la memoria è presente in Agostino, in Petrarca e in Dante. L’ Inferno, il Purgatorio e il Paradiso sono testi pieni dei ricordi personali di Dante che si mescolano a ricordi di personaggi pubblici o leggendari in una trama scritta con una maestria che la rende contemporanea.

Per comprendere il valore della memoria in Montale, basterà citare questi pochi ma immensi versi: “Non recidere, forbice, quel volto,/solo nella memoria che si sfolla./Non fare del grande suo viso in ascolto/la mia nebbia di sempre.//Un freddo cala… Duro il colpo svetta./E l’acacia ferita da sé scrolla/Il guscio di cicala/nella prima belletta di Novembre.”

La memoria in Simone Weill

cms_29754/2_1678936673.jpgIl suolo in cui si radica, una precisa presa di posizione etica prima ancora che estetica, alla luce della quale Simone Weil passa al vaglio sé stessa e il proprio tempo, è la riflessione sulla memoria, sul valore spirituale di cui essa è depositaria e sulla progressiva alienazione del suo significato

Negli appunti dedicati a Platone, scritti all’inizio del ’42, la Weil indica chiaramente quello che è il nodo decisivo di tutta la grecità: bagnarsi alla fonte che sgorga dal lago della memoria, estinguere in quell’acqua la sete del divino, della perfezione che appartiene al divino, una dimensione che i Greci hanno costantemente contrapposto alla miseria umana, esprimendo più di ogni altro popolo l’amarezza per tale miseria e la distanza rispetto alla felicità incondizionata ed impassibile della divinità.

In questa distanza è racchiuso il valore più profondo della grecità: la lirica, la filosofia, l’arte, la scienza greche non sono che ponti gettati da questa miseria verso quella perfezione. È la percezione di tale distanza, acuita dalla storia recente, che spinge la Weil a ritornare ad Omero proprio negli anni bui che precedono il Secondo conflitto mondiale, a leggere e tradurre l’Iliade e a scrivere, tra il ’37 e il ’39, le considerazioni che andranno a costituire il saggio L’Iliade, o il poema della forza, pubblicato nel 1940.

L’Iliade è legata profondamente alla memoria, al ricordo di qualcosa che sembrava cancellato: Glauco ricorda a Diomede il vincolo di ospitalità che lega le loro famiglie, Priamo suscita in Achille il ricordo del padre lontano e lo commuove fino al pianto, Andromaca ricorda a Ettore la propria vicenda, segnata dalla perdita e dal lutto, e il destino che attende lei e suo figlio quando Troia sarà conquistata. Così canta Andromaca nel ”Terzo sguardo” di Gabriella Bianco (dal poema “Tre sguardi, 1999):

Terzo sguardo: ANDROMACA (Ettore)

Ettore, rammenti,

mi accompagnasti al talamo nuziale

con inni e canti….

Talamo sventurato, infausta sorte….

fato duro ed impietoso,

che tutto, ahimè, distrusse……

Ora, senza tregua, ti piango….

… famiglia, patria, desco familiare….

...amavamo la casa,

dolce rifugio da tante sventure,

l’assedio, la rovina, la guerra….

…troppo certo, Ettore,

eri della tua forza….

Ora, senza tregua, ti piango….

e ti perdesti….

Dal muro di cinta della città

scrutai la tua fine…

Nessun strazio, né vergogna

e sventura risparmiati ci furono….

Or già più non vivi….

Ora, senza tregua, ti piango….

…piango il destino cui ci condanna il fato,

non più patria, né avvenire, né amor di padre,

in te, morto, vedo distrutta la tua vita e la mia,

e quella del caro figlio….

Amavamo la casa,

dolce rifugio da tante sventure…

Ora, senza tregua ti piango,

del destino che unì le nostre sorti,

solo l’orrore resta…

È la memoria il nervo di quest’ anima alterata e annichilita dalla forza, è lei la condizione necessaria dell’ospitalità, dell’amore, della giustizia, la sola ricchezza in un tempo di perdita e polvere, un privilegio unico e, proprio per questo, imperdonabile, agli occhi della forza.

Si diviene una cosa non solo nel momento in cui un guerriero è reso cadavere, oppure schiavo, ma anche quando un vincitore è posseduto dalla guerra, tanto che il furore gli sottrae lucidità, percezione di sé e del proprio limite; in tutti questi casi l’anima, il vero oggetto della guerra e del poema, viene manipolata, ridotta, annullata dalla forza. Ettore uccide Patroclo, Achille uccide Ettore, Paride uccide Achille, i Greci sconfiggono i Troiani, ma neanche loro godranno a lungo di tale vittoria: vincitori e vinti sono subordinati a un destino dall’equità geometrica, entro il quale la forza non ammette distinzioni.

È in questo orizzonte desolato, in questa esposizione della miseria umana che, in rari momenti, si può assistere al miracolo della grazia: allora per un attimo un raggio di luce attraversa i corpi fatti pietra dalla guerra, per un attimo l’anima torna a vibrare, a ricordare sé stessa e la sua vita al di là della forza.

Per Weil, la memoria è lo scrigno della grazia, il luogo in cui è possibile conservare ciò che immobilmente perdura. È nella memoria che si cristallizza e si tramanda quanto di originario continua a durare, e questo può avvenire gettando un ponte tra l’umana miseria e la divina indifferenza.

Intangibili e a volte difficili da rappresentare e descrivere con la potenza con cui si presentano in noi, i ricordi hanno una potenza meravigliosa e spesso possono dare seguito ad azioni nel presente, sia nella sfera pubblica che in quella privata. Analizzare il valore della memoria significa riflettere sul meccanismo che nella nostra mente ci ripropone dei pezzi di passato e anche sul come poterli utilizzare per l’oggi e il domani. Imparare dal passato è difficile a farsi, ci viene chiesto sia nella nostra vita di individui, sia come parte della collettività. *

Per Simone Weil, lo spirito occidentale è espresso dalla cultura greca nella tragedia attica, nei dialoghi di Platone e soprattutto nell’Iliade, in cui il genio greco coglie e cristallizza il senso più profondo della condizione umana. La nostra storia è fatta di ricordi, di ricordi raccolti e condivisi e soprattutto tramandati.

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Bibliografia

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (titolo originale À la recherche du temps perdu), scritto tra il 1906 e il 1922, pubblicato in sette volumi tra il 1913 e il 1927, dei quali gli ultimi tre postumi.

Simone Weil, L’ Iliade o il poema della forza, Asterios, 2012

Guido Morselli, Proust o del sentimento, Garzanti, 1943

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Gabriella Bianco

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